Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, giugno 01, 2021

Futurismo e Futurismi

La mostra Futurismo e Futurismi, che ha inaugurato il nuovo centro di cultura a Palazzo Grassi di Venezia, ci ha offerto il destro per riconsiderare l’intero movimento futurista, specificatamente sotto l’aspetto musicale. Il Futurismo comprese tutte le espressioni artistiche, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura alla poesia, dal teatro al cinematografo e contemplò anche la moda, l’arredamento, l'oggettistica e perfino la cucina.
Il grande slancio riformistico impresso dal fondatore Filippo Tommaso Marinetti ebbe quale data di nascita il Manifesto, uscito sulle pagine del Figaro il 20 febbraio 1909, nel quale erano contenute, ancora in germe, tutte le enunciazioni, teoriche della nuova arte: rottura con il passato, polemica contro l’accademismo, celebrazione del dinamismo e della civiltà meccanica, esaltazione per l’energia e l'aggressività ("guerra, sola igiene del mondo", proclamava Marinetti) e distruzione in letteratura della sintassi tradizionale per una ricerca di immediatezza e di sincerità di espressione.
La musica ebbe anch'essa la sua parte, con le proclamazioni di principio e i programmi riformatori; tuttavia le effettive testimonianze furono esigue e il movimento - per l’aspetto musicale - si accontentò per lo più di affermazioni di fede e di teorie, quasi che alla pura enunciazione di nuove formule o alla negazione delle vecchie, non fosse necessario creare opere che di queste teorie fossero le testimonianze.
In effetti, la realizzazione pratica dei progetti si giovò non tanto della collaborazione di musicisti affermati quanto di artisti generici, spesso autodidatti o dilettanti su parecchi dei quali mancano notizie precise.
Dobbiamo a Francesco Balilla Pratella (1880-1955) la stesura del Manifesto dei musicisti futuristi (1910) intriso di anatemi contro il melodramma, i conservatori, le grandi editrici musicali e la critica al quale faceva seguito l’anno successivo il Manifesto tecnico della musica futurista.
"Noi futuristi proclamiamo che i diversi modi di scala antichi, che le varie sensazioni di maggiore, minore, eccedente, diminuito e che pure i recentissimi modi di scala per toni interi non sono altro che semplici particolari di un unico modo armonico ed atonale della scala cromatica". In più si prendeva a definire il "modo enarmonico", secondo l’idea antica dei teorici medievali che ammettevano l’impiego di intervalli di grandezza inferiore al semitono (e non nell'altro significato di due note diverse di nome ma di identica altezza). Anche l’elemento ritmico veniva sistemato con un terzo manifesto nel 1912, La distruzione della quadratura, profetizzante la completa libertà di ritmo.
La prima manifestazione futurista fu puramente teorica e si concretò in un’azione dimostrativa effettuata alla Scala "Pompei del teatro italiano" con un lancio di manifestini effettuato durante la rappresentazione del Rosenkavalier di Richard Strauss.
Fu Luigi Russolo - un pittore - che, ispirato dal culto della macchina, formulò nel nuovo proclama L'arte dei rumori una musica dal linguaggio mediato dal rumore anziché dal suono.
Nel corso di una serata futurista al teatro Storchi di Modena venne presentato nel 1913 uno "scoppiatore" (che riproduceva il rumore di un motore a scoppio dal grave all'acuto) e, più tardi, al teatro dal Verme di Milano si passò addirittura a un concerto con orchestra di 18 intonarumori, ormai perfezionati e suddivisi in gorgogliatori, crepitatori, ululatori, rombatori, scoppiatori, sibilatori, ronzatori, stropicciatori e scrosciatori, in modo da consentire un’idea di partitura. I "tempi"del concerto hanno titoli descrittivi volutamente bizzarri: "Il risveglio di una grande città", "Si pranza sulla terrazza del Kursaal", "Convegno di automobili e di aeroplani", che ci consentono di congetturare una serie di effetti prossimi a quella che noi oggi chiameremmo colonna sonora.
Ma fino a questo momento mancava ai grandi programmi e alle roboanti affermazioni di principi l’applicazione pratica, il vero "opus" futurista.
A questo provvide Pratella con l’opera breve L’aviatore Dro, rappresentata a Lugo di Romagna nel 1920 e composta qualche anno avanti, nella quale convergono stilisticamente un po’ tutte le esperienze musicali precedenti (Debussy, Puccini, Pizzetti e i veristi) e che si ascrive all'esperienza futurista per tre scene nelle quali gli intonarumori - adottati per la descrizione del volo e per la caduta finale del pilota - si mischiano all'orchestra.
Connubio che chiaramente dimostra l’impossibilità di una vera musica soltanto futurista e la limitazione stessa degli "strumenti", per forza di cose costretti alla funzione pura di descrittori ausiliari, simili ai vari pigolii di uccelli, campanacci da vacche, colpi di cannone, già adottati in infinite altre musiche rievocative di atmosfere o di ambienti. L’aviatore Dro termina con un "lampo enorme", preceduto da ululato di sirena, che solcherà cielo mare e terra prima della fine di tutto e del ritorno al "caos primordiale". Altri elementi sconvolgenti avrebbero dovuto essere le sostituzioni delle indicazioni di tempo con situazioni di stati d’animo ("vivo spasimo", "gioia sfolgorante" o anche "impotenza", "lussuria" ecc.).
Sulla scia di Pratella altri compositori si cimenteranno nel tentativo di rinnovamento, nomi che oggi ci dicono poco come Luigi Grandi, Nuccio Fiorda, Aldo Giuntini. Tutti tentarono di affermare con apporti esterni (jazz, varietà, cinematografo) il proprio credo futurista. Fra questi il più vicino ai modelli tradizionali fu Franco Casavola, un musicista di rilievo che dopo la ventata futurista (Danza dell'elica, 1924) rientro nell'ordine con una produzione tradizionale di lavori che apparvero nei maggiori teatri italiani.
La vicenda dei futuristi vedrà la fine con l’avvento del fascismo; il nuovo corso segnerà una sorta di ritorno all'ordine che andrà concretandosi contemporaneamente alla stabilizzazione del regime. Del resto, nella retorica e nel patriottismo di Marinetti era già presente lo spirito nazionalistico e guerriero che il fascismo non fece che accogliere e inquadrare, raccogliendo fermenti e idee precedenti la prima guerra mondiale. Marinetti, diventato accademico d’Italia, si scaglierà a suo tempo contro il jazz, chiamato negrismo musicale, con i suoi "lazzi nevrastenici di mani pederastiche per meccanizzare la falsa allegria dei suonatori".
Interessanti sono le relazioni che i futuristi ebbero con la Francia e di conseguenza anche con Diaghilev e Stravinskij che con i ballets russes operavano a Parigi negli anni dieci.
A Fortunato Depero, un artista autodidatta - pittore, scultore e poeta - dobbiamo le notevoli anticipazioni di moduli pittorici che vennero in voga successivamente. I suoi progetti scenografici non vennero in Francia mai realizzati. Il più noto fra questi, Le chant du rossignol di Stravinskij (che venne poi realizzato da Benois) segnò uno dei contatti fra futuristi e ballets russes. Una serata al "Costanzi" di Roma, nel corso della quale Stravinskij diresse L’oiseau de feu e Feu d’artifice con scenografie di Balla (che si firmava Futurballa) e coreografie di Diaghilev, viene ricordata per un altro particolare. Ci si attendeva prima dell’inizio l’inno nazionale russo, ma avendo lo zar appena abdicato parve impossibile eseguire "Dio salvi lo zar". Così Stravinskij fu indotto ad orchestrare, dettandone la partitura ad Ansermet in una sola notte, il Canto dei battellieri del Volga, che per l’occasione diventò l’inno russo di transizione tra zarismo e comunismo.
Nello stesso 1917 i musicisti Casella e Malipiero prestarono alcune loro composizioni ai Balli plastici di Depero, eversivi e provocatori, dai fantocci multicolori e dalla viva scenotecnica che ispirarono l’avanguardia tedesca degli anni ’20.
A Napoli, novità assoluta per il 1921, si vide un’orchestra sparpagliata fra palchi e pubblico nonché provocazioni atte allo scambio di insulti e scontri fra interpreti e spettatori. Un’ideazione del poeta Francesco Cangiullo, da effettuarsi a cura della compagnia del Teatro della Sorpresa. Trattandosi di Napoli non è difficile supporre che il classico "pernacchio" avrà primeggiato quale strumento solista. Sempre del Cangiullo si ricordano le serate di "poesia pentagrammata", con lettura dei versi scritti sul pentagramma e una specie di intonazione musicale (ma non sarà stata una sorta di sprechgesang?) con Marinetti che talvolta si produceva al pianoforte. L’assoluta necessità dell’improvvisazione musicale è teorizzata in un successivo manifesto marinettiano del 1921 e nello stesso anno Mario Bartoccini e Aldo Mantia si esibiscono in "discussioni fra pianoforti improvvisatori" con aggiunta di canto estemporaneo.
Fra le tante altre citazioni che si potrebbero fare ricordiamo anche le azioni "mimico-sinottiche" di Balla con una specialissima composizione chiamata giustamente Inferno da realizzarsi con 300 fischietti e 300 campanelli.
Il rientro nei ranghi del periodo fascista corrispose per la maggior parte dei musicisti a un ritorno alla musica scritta sul pentagramma, del resto mai abbandonata completamente.
Marinetti aderì, dopo il 1943, alla repubblica di Salò, nelle cui teorie sociali vedeva forse un ritorno alle prime concezioni politiche futuriste legate al fascismo rivoluzionario delle origini.
A chi ci avrà seguiti finora non sarà sfuggito l’elemento fortemente anticipatore delle pratiche e delle teorie futuriste sulle avanguardie musicali successive, comprese quelle nate con ben altri postulati teorici (ed ovviamente sulla musica leggera nelle sue versioni pop e rock).
La storia e la natura dei nuovi valori che andavano concretandosi a Vienna e Parigi - contemporaneamente al movimento futurista - avevano in comune l’intento di fare piazza pulita del passato e delle certezze del sistema tonale. Le similitudini del movimento italiano con paralleli movimenti radicali di altri paesi sono evidenti. Il raggiungimento contemporaneo del medesimo pensiero è in arte un fatto abbastanza comune. Le ribellioni e le negazioni del passato esigono però costruzioni nuove che per i futuristi, come abbiamo detto, sono restate troppo spesso nel campo dell’utopia.
Per quanto riguarda le avanguardie basate sulla serialità e sulle teorie adorniane - che ispirandosi alla dodecafonia seguivano pur sempre un sistema d’ordine - non possiamo negare che per i non addetti ai lavori e fruitori del messaggio, anche queste musiche così preoccupate dei loro assunti filosofici, risultino proprio il contrario di quello che sono, ossia composizioni prive di senso anche se spesso di indubbio potere suggestivo.
Figlia non dubbia del movimento futurista, anche se forse accidentale, fu senza dubbio l’"alea" con la sua casualità e indeterminatezza. Le infinite possibilità offerte dalla libera esecuzione, l’esecuzione "aperta" - da qualsiasi pregiudiziale estetica o filosofica generata - ci porta, col giudizio del nostro orecchio arbitro indiscusso e ultimo di qualsiasi indagine musicale, a una sola conclusione. Sia che si tratti di Cage, di Kagel, di Boulez, di Stockhausen o di altri musicisti gravitanti o discendenti da Darmstadt, ci opprime la sensazione di rivivere esperienze già vissute anche se sotto diverse idee e bandiere.
Cos'è l’elettronica se non l’infatuazione per la "macchina"» (con le moderne apparecchiature, ovviamente) già proclamata da Russolo nel 1914 nella medesima entusiastica devozione ai "nuovi mezzi espressivi"?
E nel teatro magico e liberatorio di Artaud, nell’assurdo di Beckett, nelle successive dissacrazioni del "happening" non c'è forse una similitudine col concetto marinettiano del teatro rivoluzionario, almeno nella pratica se non nelle tesi programmatiche?
Infine si osservino le "parole in libertà" e i "grafismi" dei libretti di alcuni autori del contemporaneo teatro in musica, con le parole ripetute, raddoppiate, smozzicate, in lingue diverse, e poi si guardino certi disegni di Marinetti (datati 1915) o le pagine del volume Zang tumb tuum (1912).
Espressioni di crisi di valori, senz'altro. Ci domandiamo, tuttavia, se i futuristi, artisti un po’ ingenui, spesso beffeggiati e insultati (e senza alcun guadagno materiale), avrebbero mai potuto sperare in una discendenza così copiosa e soprattutto così largamente sostenuta da interessi ideologici editoriali e politici, delle loro arruffate ma oneste idee.
Mariella Busnelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXXIX n.3, settembre 1986)

3 commenti:

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