"Kodaly e io volevamo fare la sintesi dell'Oriente e dell'Occidente. Per la nostra razza, per la posizione geografica del nostro Paese che è allo stesso tempo la punta estrema dell'Est e il bastione difensivo dell'Ovest, noi potevamo pretendere questo... Debussy ha restaurato il senso degli accordi in tutti i musicisti; è stato importante quanto Beethoven che ci ha rivelato la forma progressiva, e quanto Bach, che ci ha definitivamente introdotti nelle trascendenze del contrappunto... Io mi pongo sempre questo problema: si può fare una sintesi di questi tre classici e restituirla viva ai moderni? Forse col lavoro quotidiano che Schumann raccomandava... Sì, con molto, moltissimo lavoro".
Così diceva Bela Bartok a Serge Moreux, appena iniziati gli anni trenta. E certo in questa confessione stava una delle sue "tesi", la più importante e valida ai fini della pura creazione musicale. L'altra "tesi"» era quella della rivalutazione delle radici popolari o nazionali della musica della sua terra. Mentre tanti ingegni europei scherzavano con le antichità, e si pavoneggiavano in nuove arcadie accademie, Bartok - uscito da quella singolare e affascinante terra che è l'Ungheria - indicava una strada della cui giustezza nessuno può dubitare.
Ma Bartok, chi era costui? E' un segno dei nostri tempi che di lui si conosca assai poco, almeno sotto il profilo biografico. Eppure egli è uno degli autentici "grandi" del nostro secolo, e il suo nome sta accanto, con pieno diritto, a quelli di Prokofief, di Strawinski, di Schoenberg, di Hindemith Di tutti, forse è stato il più limpido, probabilmente il più impegnato. Un filo tragico lega gli episodi della sua vita, percorsa da avvenimenti crudeli e da inimicizie politiche: anche per lui c'è stato l'o1traggio e l'esilio. E una difficoltà tutta politica di trovare una terraferma, fin dall'infanzia, in quel crogiuolo di popoli e di proteste che era l'Impero austro ungarico.
Esaminiamo i dati biografici. Bartok nacque in un paesino del Torontal, Nagyszentmiklos, nella zona magiara della attuale Romania. Orfano a otto anni, fu educato dalla madre, maestra elementare, e vagò nella zona finché non approdò a Bratislava, la capitale slovacca. Allora Bela Bartok aveva dodici anni, e si era nel 1893.
Terminata la scuola media, Bartok (si veda la sua autobiografia, pubblicata da Einaudi negli Scritti sulla musica popolare del compositore stesso) deve decidere a quale conservatorio andare. Scelse Budapest, e mai scelta fu più felice. L'altra alternativa era Vienna (o la Germania). Qui incontrò la grande musica, passando da Wagner a Strauss a Debussy, e pose le basi per il suo immenso lavoro sulla riscoperta della vera musica magiara: elementi popolari autentici entrarono nelle sue prime composizioni.
Le idee di Bartok urtarono rapidamente contro le addormentate coscienze nazionali, che non trovarono di meglio che indignarsi. La sua lunga battaglia (nella quale ebbe a compagno fedele Zoltan Kodaly) contro le aberrazioni nazionalistiche venne interrotta nel 1940 dalla necessità di lasciare l'Europa. Bartok emigrò negli Stati Uniti, come dovette fare tutta una schiera di alti ingegni europei: benché accolto con generosità ed amicizia quell'uomo esile e pensoso, miracolosamente dotato e straordinariamente chiaro, non riuscì a «inserirsi›› completamente nel Paese adottivo. Morì nel 1945, in terra straniera, senza rivedere la patria tanto amata, che ora l'avrebbe accolto con tutti gli onori e con tutta la forza della riconquistata indipendenza.
Ma intanto, il mondo si era inchinato alla sua arte. Il Castello di Barbablu, Il mandarino meraviglioso, i Concerti per piano e orchestra, quello per violino e orchestra, i Mikrokosmos, la Sonata per due pianoforti e percussione, la Musica per archi, percussione e celesta, il Concerto per orchestra del periodo americano, accanto alle raccolte di canti popolari, entravano sovente nei repertori e nei programmi.
Da questo elenco mancano i Quartetti, che sfuggirono spesso all'attenzione di molti. Ma questi Quartetti, in numero di sei, hanno una importanza fondamentale. Ora la Curci Erato li propone al pubblico in un album di prestigio, affidato per l'esecuzione al Quartetto Bartok di Budapest, vale a dire al complesso forse più qualificato, tecnicamente e spiritualmente, a eseguirli.
Non è un'opera raccolta in breve periodo d'anni, al contrario. Il primo è del 1908, il secondo è datato 1915-17, il terzo è del 1927, il quarto del 1928. Infine il quinto e il sesto sono rispettivamente del 1934 e del 1939. I nomi degli esecutori: Peter Komlos, primo violino; Sandor Devich, secondo violino; Geza Nemeth, viola; Karoly Botvay, violoncello.
Le date sopraelencate indicano chiaramente la dislocazione dei Quartetti e le loro diverse «quote». Benché sia difficile stabilire con nettezza dei "periodi" nella musica di Bartok, tuttavia risulta chiaro all'esame e all'ascolto che la serie dei Quartetti rivela l'ascesa verso sempre più grandi altezze spirituali. Il Sesto, in verità conclude in modo conseguente e unitario un discorso che non ha mai subito interruzioni. Per questo - se è vero che i Sei quartetti sono come le frasi di un unico periodo - è essenziale che siano ascoltati nel loro ordine e nella loro interezza.
Il Quartetto n. 1 (in la minore) può intendersi come il punto di partenza da uno stabilito dato culturale. Esso ha come padre spirituale, secondo molti critici, l'ultimo Beethoven. C'è nel Quartetto una classica unità, una vitalità e una verità concentrate al sommo grado. I tre movimenti (Lento, Allegretto, Introduzione-allegro-allegro vivace) sono scritti quasi d'un fiato, e contengono una serie di figure nuove e mutevoli e di ritmi che si fa poca fatica a catalogare - anche se si può parlare apertamente di una immissione folcloristica - come ungheresi.
Il Quartetto n. 2 cade in un periodo in cui Bartok ha già portato avanti le sue ricerche sul patrimonio folk. E' un lavoro intelligente e non alieno da preoccupazioni intellettuali: vi si notano perfino echi delle esperienze nell'Africa del Nord. Dei tre movimenti, Moderato, Allegro molto capriccioso, Lento, l'ultimo è stato considerato particolarmente commovente e intenso. Differenze e unità si alternano nella composizione, la cui impronta personalissima balza subito in evidenza nelle numerose invenzioni di una scrittura a dir poco geniale.
Il Quartetto n. 3 in do diesis è il più breve e il più severo (a Bartok piaceva particolarmente). Rigoroso nella struttura e ambiguo nella tonalità, non chiude la porta a immagini che hanno una radice folcloristica abilmente mascherata. Bartok, a questo punto, possiede in modo totale l'arte della scrittura per quartetto.
E' facile indugiare in descrizioni psicologiche, a proposito del Quartetto n. 4 immediatamente successivo nel tempo. E' preferibile invece considerare il lavoro nella sua unità, nella sua parentela con Debussy e la civiltà culturale ad esso collegata. Il Quartetto ha una straordinaria forza evocativa, si libra in atmosfere specialmente intense, non disdegna il descrittivo e dunque il paesaggio. La gamma delle sensazioni appare più vasta che in passato, e l'ordine delle cose vi si dipinge in modo ora affabile ora imprevisto.
Splendido e nuovissimo, il Quartetto n. 5 dà il senso della grandezza di Bartok al di là di ogni descrizione. Ascoltarlo è fonte di continua sorpresa. Si pensi allo Scherzo, al semplice lirismo dell'Andante, all'essenzialità e alla bellezza di ogni frase. Il magistero tecnico è tale che il compositore ormai raggiunge ogni risultato nel modo più semplice e diretto. Il Quartetto n. 6, che conclude la serie, è come la vetta di tutto il pensiero dell'uomo: ispirato alla morte della madre questo lavoro pare nutrito di una tragedia che supera il fatto personale per interpretare il dolore e lo sgomento del mondo. Era il 1939, e la seconda guerra mondiale stava per incidere tragicamente il destino dell'Europa.
Parlando dei Quartetti bartokiani non si può non citare una frase estremamente chiarificatrice lasciataci dall'autore stesso: «Anche nelle mie opere più astratte, come i Quartetti, ove imitazioni di certi tratti della musica contadina non appaiono, si rivela un certo spirito indescrittibile, inesprimibile, un "certo non so che" che dà a chi ascolta e conosce la tradizione rurale l'impressione che ciò non poteva essere scritto che da un musicista dell'Europa orientale››.
E' una dichiarazione straordinariamente e orgogliosamente vera: è l'incontro ad altissimo livello delle due «tesi» di cui parlavamo all'inizio di queste note. Ed è la prova di una costante e impegnata dedizione a un ideale che da nazionale emergeva sul piano totale e inequivocabilmente purissimo di un discorso valido per tutti, oggi e sempre.
Dell'esecuzione si può dire ancora e infine che è perfetta, e che migliore non la si saprebbe immaginare.
Mario Pasi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXI n. 3 settembre 1968)
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