Il mio primo incontro con Richard Strauss risale al lontano 1925 a Torino; si preparava l'apertura di quel delizioso piccolo teatro privato voluto da Riccardo Gualino che fu battezzato "Teatro di Torino", la cui splendida attività fu purtroppo troncata troppo presto da motivi d'indole politica e che durante la sua breve vita sviluppò un programma d'arte veramente d'eccezione.
Dopo l'inaugurazione con la Italiana in Algeri di Rossini, il sipario si alzò sulla prima rappresentazione assoluta in Italia della Arianna a Nasso di Strauss. La scelta non poteva essere più felice dato che la seconda versione (la prima come è noto si formava della musica di scena da eseguire durante la rappresentazione del Bourgeois gentilhomme di Molière), in due atti, costituiva uno spettacolo musicale completo di per se stesso, con un complesso strumentale ridotto, quasi musica da camera ampliata; come si vedrà in seguito, parlandone con la scorta di un prezioso documento di mano dell'Autore, che è in mio possesso. L'opera di Rossini costituiva una quasi novità per il fatto che da alcuni anni era uscita, non si sa bene perché, dal repertorio comune dei teatri lirici italiani; l'opera di Strauss invece era una novità assoluta. Il successo che arrise pieno e completo alla riscoperta della Italiana, anche per merito di una squisita interprete vocale come la Conchita Supervia, non impedì che la seconda opera, l'Arianna straussiana, riscuotesse in egual misura il consenso del pubblico. Strauss, invitato da noi, aveva accettato di venire a presenziare allo spettacolo, e arrivò qualche giorno prima per assistere alle prove, accompagnato dal suo amico Dr. Erhardt, regista.
Dopo l'inaugurazione con la Italiana in Algeri di Rossini, il sipario si alzò sulla prima rappresentazione assoluta in Italia della Arianna a Nasso di Strauss. La scelta non poteva essere più felice dato che la seconda versione (la prima come è noto si formava della musica di scena da eseguire durante la rappresentazione del Bourgeois gentilhomme di Molière), in due atti, costituiva uno spettacolo musicale completo di per se stesso, con un complesso strumentale ridotto, quasi musica da camera ampliata; come si vedrà in seguito, parlandone con la scorta di un prezioso documento di mano dell'Autore, che è in mio possesso. L'opera di Rossini costituiva una quasi novità per il fatto che da alcuni anni era uscita, non si sa bene perché, dal repertorio comune dei teatri lirici italiani; l'opera di Strauss invece era una novità assoluta. Il successo che arrise pieno e completo alla riscoperta della Italiana, anche per merito di una squisita interprete vocale come la Conchita Supervia, non impedì che la seconda opera, l'Arianna straussiana, riscuotesse in egual misura il consenso del pubblico. Strauss, invitato da noi, aveva accettato di venire a presenziare allo spettacolo, e arrivò qualche giorno prima per assistere alle prove, accompagnato dal suo amico Dr. Erhardt, regista.
Era la prima volta che io lo incontravo personalmente; sebbene io avessi alcuni anni prima diretto, per l'inaugurazione della stagione alla Scala di Milano, la sua Salomé, poiché non è mai stato mio costume andare a cercare e disturbare gli autori; per farmi ringraziare del successo, così, fino all'epoca di Torino, non avevo avuto con Strauss il minimo contatto né diretto, né indiretto. D'altro canto alla Scala io avevo al mio fianco il grande Arturo Toscanini, che allora io consideravo in ogni senso il mio maestro, e quindi il suo quotidiano controllo alle mie prove mi era di sicura garanzia che errori gravi d'interpretazione non mi sarebbero potuti sfuggire senza un pronto richiamo. Perché dunque ricorrere all'Autore? Dovetti invece farlo per l'Arianna che a quel tempo nessuno di noi, credo, salvo forse Andrea Della Corte, aveva né sentito né veduto. Si presentava per primo il problema delle sonorità con un complesso orchestrale insolito e stranamente concepito per chi, come me, era abituato alla concezione dello strumento d'opera che da Mozart arriva fino a Wagner. Ci fu dunque tra me e Strauss, tra l'ancor giovane direttore e il celebre compositore, uno scambio di lettere sul quale tornerò tra breve.
Per farsi un'idea adeguata di che cosa significasse per me a quel tempo un incontro con l'autore di Salomé, bisogna rifarsi agli avvenimenti dell'epoca e ricordare che la prima di Salomé è del 1906, le prime esecuzioni italiane dei poemi sinfonici (Till Eulenspiegels lustige Streiche e Morte e tmsfigurazíone) risalgono ancora a qualche anno prima per opera di due grandi nostri direttori, intendo dire di quell'attentissimo e apertissimo musicista che fu Luigi Mancinelli e poi di Arturo Toscanini che, sfidando fischi, beffe, critiche demolitrici, presentarono al pubblico dei nostri concerti sinfonici questi poemi che allora rappresentavano una vera e propria rivoluzione musicale. Quel capolavoro che risponde al titolo di Till Eulenrpiegels lustige Streiche, il quale da un nucleo creativo di sette note da origine a una composizione di venti minuti, sbalordiva noi giovani che, anche senza capire tutto fino in fondo, presentivamo in questa composizione qualcosa di grande; l'apparire di Salomé con Toscanini direttore fu un grido di battaglia; i giovani gridavano all'osanna, mentre il pubblico milanese rischiava o sbadigliava alla Salomé e il grande vegliardo, autore del Mefistofele, lui che a suo tempo era passato per un rivoluzionario, dettava la triste sentenza «musica di tram in curva!››.
Io allora, in margine della mia attività musicale di studente alla fine dei corsi di composizione, scrivevo anche di critica musicale sopra un giornale romano, Il Corriere d'Italia, e di tanto in tanto illuminavo i miei lettori con articoli esplicativi sopra i poemi di Strauss, quando questi figuravano nei programmi dell'Augusteo per opera di qualche coraggioso direttore nostro o straniero. Oggi è difficile immaginare che effetto possa aver prodotto sopra i pubblici di allora, anche sopra i più colti, un poema come il Così parlò Zaratustra, non solo per la novità della espressione musicale, ma anche per la concezione filosofica e letteraria assolutamente insolita, sulla quale si basava l'idea del poema, con i riferimenti a opere letterarie e, nel caso di cui si tratta, filosofiche, quale il Così parlò Zaratustra di Nietzsche!... Il direttore del mio giornale, che era giornale cattolico, pur accettando il mio articolo si sentì in dovere di aggiungere una "nota" nella quale dichiarava che lo scritto si riferiva esclusivamente all'opera musicale senza alcun riferimento "alle folli idee antireligiose di Nietzsche!...". Sorridiamo pure oggi di queste bazzecole, ma alla luce della storia non è inutile rivangare il passato anche con le sue debolezze e i suoi errori.
Di Strauss io ricordavo, senza aver potuto assistervi, una sua tournée in Italia, dove aveva, in alcuni concerti in giro per le principali città del nord, ricevuto più mele guaste sulla testa (per dirla con Heine) che non applausi, e fu allora che Gabriele d'Annunzio lo chiamò "il barbaro dagli occhi chiari". Quando io lo conobbi personalmente, di barbaro non aveva molto, per la verità. Era un uomo molto semplice nel tratto, assai gentleman, a volte quasi timido, e di tanto in tanto mostrava un certo senso di humour che in un tedesco poteva anche sorprendere. A questo proposito mi ricordo che un giorno, avendogli qualcuno domandata la sua opinione sulla musica moderna attuale (eravamo nel 1911, non lo dimentichiamo, e la dodecafonia era ancora in mente Dei cioè «in mente» di Schönberg... e forse neppure nella sua mente), egli rispose arrossendo (arrossiva sempre quando parlava di cosa importante) che si sentiva un po' lui il primo responsabile della modernità in musica (alludeva alle battaglie cui ho accennato sopra) ma che se avesse potuto prevederne le conseguenze, forse non avrebbe neppure cominciato. Mi ricordo che a questa boutade era presente il nostro caro Umberto Giordano il quale la gustò tanto che molti anni dopo ancora se la ricordava.
Il mio primo entusiasmo fatto di ardente ammirazione e vivace amore, come si può avere a vent'anni, al tempo dell'Arianna di Torino aveva subìto già molte docce fredde e i giudizi, chiamiamoli cosi, avventati della giovinezza avevano lasciato posto ad una posizione critica obiettiva e serena, dopo gli eccessivi entusiasmi e le reazioni in senso contrario, sempre esagerate come i primi amori. Ma se togliamo alla giovinezza il diritto di sbagliare per troppo amore, che cosa le resta? Oramai la nostra adorazione era orientata verso l'autore del Pelléas e della Mer; non per questo l'ammirazione per Strauss veniva rinnegata; rimaneva se non altro il valore inestimabile del grande artigiano, il musicista ferratissimo e, come valore storico, l'assertore di alcuni nuovi principi armonici, come ad esempio il cosiddetto "divisionismo tonale", che tanto rumore aveva sollevato all'apparire di Salomé. A questo proposito interrompo il discorso per un attimo per raccontare un episodio che mi sembra molto sintomatico e che risale a parecchi anni dopo il nostro incontro torinese, quando oramai tra me ed il grande compositore tedesco era nata e si era stabilita una mutua simpatia che divenne poi amicizia.
Ero a Firenze nella mia dimora fiesolana quando un giorno di primavera piovosissimo, come può accadere qui in Toscana, io ero chiuso nel mio studio immerso in non so quale lavoro ed avevo dato precisa disposizione che nessuno potesse essermi nemmeno annunziato; quando ad un certo momento entra la donna di servizio e molto timidamente mi dice: "Ci sono due vecchi signori alla porta che insistono parlando una lingua che io non capisco... Hanno l'aria assai per bene... Che debbo fare?". Io, colto da una specie di presentimento, esco dalla mia camera e mi trovo davanti Strauss e Frau Pauline! Erano in viaggio di ritorno da Taormina, dove andavano ogni anno come turisti, essendo lui addirittura folle d'amore per la Sicilia, le antichità classiche e per il clima del Sud; avevano pensato di venire a farmi una visita. Erano le due del pomeriggio, alle otto della sera stavano ancora con me.
Fu in quel felice pomeriggio dove io ebbi ancora una volta la riprova della profonda verità contenuta in quel che disse un antico filosofo cinese, non esservi per noi altra felicità che quella di una conversazione con un amico! Fu in quel pomeriggio che a un certo punto la conversazione cadde su Bach e su certe sue "dissonanze" di cui non è facile trovare la spiegazione nelle regole dei manuali; io mostrai a Strauss quel passo dell'"Andante" del Primo Concerto di Brandeburgo, dove gli urti tra gli oboi, i violini e la melodia del basso sono la prova che già fin da allora Bach concepisse la possibilità, per non dire la necessità, di un vero e proprio divisionismo tonale. Strauss non ricordava il passo, e rimase qualche minuto perplesso davanti alla partitura, poi dovette ammettere che non si trattava di errore, ma che in nessun modo Bach avrebbe potuto risolvere il problema impostogli dal cammino indipendente delle parti melodiche.
Il bello è che nelle ultime battute della Salomé egli si era servito dello stesso "divisionismo", accoppiando le due cadenze, la plagale con la settima maggiore, per una necessità grammaticale, ottenendo un risultato efficacissimo e per quel tempo assolutamente nuovo.
Chiudo la lunga parentesi e seguito a ricercare nella mia memoria la immagine cara e paterna di questo "barbaro" che l'attrazione verso il mondo mediterraneo, la cultura e la forma mentis quasi goethiana avvicinavano tanto a noi italiani.
Non era una posa in lui questo amore del classico sebbene egli apparisse in certi suoi gusti un vero e proprio "decadente". Si, il cantore della perversa sensuale Salomé, la precorritrice dell'odierno streap-tease (la danza dei sette veli), il musicista che va a cercare il soggetto per un'opera nella decadente e morbosa letteratura d'un Oscar Wilde, era intus et in cute un amatore del mondo classico; sembra una contraddizione ma non la è. La prima cosa che mi chiese arrivando a Firenze fu di accompagnarlo a vedere il Teatro romano di Fiesole, che io, romano di nascita, non mi ero mai curato di andare a visitare!... Il figlio del suonatore di corno dell'Orchestra di Monaco aveva fatto studi classici e si era imbevuto di cultura classica. Se Hofmannstahl gli fece un libretto sopra la Elettra greca, che è un bel tradimento di poeta decadente, e Strauss lo accettò così com'era con la sua falsificazione, ciò nondimeno la scelta stessa dell'argomento testimonia dell'attrazione che il mondo greco antico aveva sulla sua fantasia e nell'Elettra egli ha messo una grande quantità della sua migliore ispirazione.
Quando dirigeva le orchestre, dalla sua gioventù fin quasi dopo la maturità, aveva dedicato alla funzione del direttore grandissima parte della sua attività; là dove si trovava più a posto come interprete era in Mozart, che è mediterraneo e per due terzi italiano; anche in Haydn si trovava a suo agio e ricordo di lui ottime esecuzioni con l'orchestra romana quando formava i suoi programmi metà con musica di Haydn o di Mozart e metà con la propria! La propria la dirigeva meno bene che l'altra... Era insofferente dei dettagli e quando, dopo settimane di prove estenuanti, l'orchestra di Torino al suo arrivo per la "prima" di Salomé, per bocca del direttore gli domandò spiegazione a proposito di un dubbio sopra una nota di non so quale strumento, egli - dopo qualche minuto di attento esame della partitura - rispose: "Non lo so, ma tanto è lo stesso!". Del resto in calce a una delle sue lettere a me indirizzata, a proposito dell'Arianna, mi scrive: "Je n'ai pas trouvé le la naturel à la page...". Si capisce che io gli avevo chiesto un'analoga spiegazione senza poterne avere risposta! Ma questa sua abituale indifferenza su certi particolari scompariva quando si trattava, come nel caso della strumentazione di Arianna, di spiegare all'interprete le sue chiare e ferme intenzioni.
Quando dunque io presi il primo contatto con la partitura di Arianna, sulle prime rimasi sorpreso della novità dell'impostazione strumentale, che, come si sa, è basata sopra un piccolo numero di archi considerati quali veri e propri "solisti", più altri solisti "fiati", sostenuti da un grosso harmonium (Schiedmayer di Stuttgart) e un pianoforte in funzione anch'esso di solista. Fu la mia prima incomprensione che mi spinse a scrivergli domandando spiegazioni, e così si iniziò tra noi una corrispondenza dalla quale traggo ora una lettera che mi pare presenti una certa importanza. Non tutto il male viene sempre per nuocere e oggi a distanza di tanti anni io non deploro di aver commesso una sciocchezza, ché tale era la presunzione di proporre una modifica all'opera compiuta di chi ne sapeva tanto più di me, se da questo uscì fuori una chiarificazione così interessante.
Rileggendo queste righe sono ancora commosso nel constatare con quanto tatto, con quanta paterna gentilezza egli controbatteva le mie obiezioni, preoccupandosi di non offendermi, pur sapendo fermamente di aver ragioni da vendere.
Leggiamo (traduco dal testo originale scritto in uno stentato francese):
"Il vostro orecchio non è ancora abituato a questa sonorità magra; è la sonorità della musica da camera con la supposizione che i sedici strumenti a corda siano strumenti antichi (degli Stradivari, dei Guarnieri, degli Amati). Se non si potessero avere per questa rappresentazione a Torino, cercate di noleggiarli presso un amatore o un museo."L'arrangiamento proposto da voi non è molto buono; perché un raddoppio puro e semplice d'ogni parte di archi per me è una sonorità fatale [sic] [forse intendeva dire “ sbagliata ”]. Per me esiste soltanto un quartetto di sedici primi e sedici secondi violini e questo è un'orchestra. Ma l'orchestra di Arianna è musica da camera. La realizzazione pratica dipende dall'acustica del teatro, dalla qualità dei violinisti e dagli strumenti da loro suonati. Così io vi prego di disporre il quartetto come credete meglio ma non dimenticate che forse giudicando dal vostro leggio potreste ingannarvi sulla forza dell'orchestrazione che nell'accompagnamento dei cantanti è così... e sottile come è forte per lo sfruttamento della qualità solistica di ogni suonatore. Fate (vi consiglio) una prova d'orchestra e anche coi cantanti facendola dirigere da un altro e ascoltate l'orchestra dall'ultima fila della platea o dall'alto. Ritengo che una volta fissato il carattere dell'opera e dopo i primi dieci minuti della serata, fino a che l'uditorio non si sia abituato a questa sonorità nuova e speciale dell'opera, tutto andrà bene, purché i suonatori siano di prim'ordine e i loro strumenti siano Stradivari o Amati, il grande harmonium della fabbrica Schiedmayer di Stuttgart, e le arpe americane."In ogni caso fate quel che credete meglio, l'ultima decisione se mai potremo prenderla durante l'ultima prova, dopo il mio arrivo a Torino".
L'amatore di strumenti antichi e ricco collezionista a Torino fu scovato, ma si rifiutò di prestarci gli strumenti e mi ricordo che argutamente Strauss disse che era come collezionare dei cadaveri, mentre noi facendoli suonare li avremmo riportati in vita.
Le lunghe, intelligenti e interessanti conversazioni di quei felici e lontani giorni sono ancora tutte vive nella mia memoria e naturalmente non possono essere argomento di uno scritto breve come il presente; è con rammarico che mi rassegno a tacerne la maggior parte. La nostra relazione, iniziata con l'Arianna di Torino (1925), si sviluppò e si perfezionò poi a Firenze al tempo della Stabile orchestrale fiorentina, quando io invitai lui più volte a dirigere concerti e in occasione del primo festival del Maggio fiorentino.
Facendogli sentire con la mia orchestra l'esecuzione dei suoi principali poemi, potei constatare, come già avevo fatto con Giacomo Puccini, l'immensa elasticità che i grandi compositori hanno nel fissare i limiti dentro i quali può muoversi libera l'interpretazione delle loro opere. Per il Till mi disse che la mia interpretazione era spiccatamente latina: "Noi in Germania - disse, e pareva parlasse dell'opera di un estraneo, non della propria - siamo abituati a considerare la figura del monello Till come un piccolo e panciuto buffone, voi la vedete come uno snello e impertinente “ scugnizzo ” ma è ugualmente giusta la vostra come la nostra interpretazione; mantenete pure il vostro movimento, che è più rapido e vivace del nostro; abbiamo ragione entrambi!".
Non ci sono che i grandi i quali possono parlare così avanti a un interprete, i mediocri sono sempre tirannici nelle loro pretese e difficilmente si ritengono soddisfatti... pensano forse di aver scritto un'opera più bella di quella che risulti all'ascolto...
Rileggendo le non poche lettere che ho qui con me, di Strauss, alcune scritte in francese (un francese piuttosto curioso e zoppicante), altre nella sua lingua, trovo con una certa commozione il ricordo del suo interessamento alle vicende della mia vita professionale; in un certo tempo aveva ottenuto per me un invito a Berlino e uno a Vienna e aveva parlato in tutta la Germania e in Austria di me con l'autorità che veniva dalla sua larga fama; io purtroppo, per circostanze che neppure ricordo più, non potep mai accettare quegli inviti, che accettai invece alcuni anni dopo; ed egli fu tanto felice dei miei successi a Salzburg che mi scrisse subito affettuosissimamente. Io diressi poi a Venezia nel 1940, a guerra già iniziata, la prima in Italia della sua opera Giorno di pace, che mi valse il suo commosso e caldo ringraziamento. A Londra, dopo la guerra, appresi tutte le sue vicende: sebbene fosse molto facoltoso, si era trovato profugo, fuggito romanzescamente dalla Germania a traverso la Svizzera con la vecchia moglie già malata, e rifugiatosi in Inghilterra si era trovato a corto di mezzi finanziari al punto di dover ricopiare i suoi stessi manoscritti e venderli agli americani... Sir Thomas Beecham, che me lo ha raccontato, organizzò un concerto di musiche di Strauss "a sua beneficenza!". E a Garmisch aveva lasciato niente di meno che un quadro del Tintoretto!
Tra le tante accuse che in vita gli furono fatte ci fu anche quella di essere troppo legato all'amore del denaro. Ricordo una tremenda critica di un giornale americano, dove tra le altre cattiverie e amenità giornalistiche c'era questa asserzione: "Strauss è la falsa aurora della musica moderna". E se togliamo l'aggettivo "falsa" non siamo forse lontani dalla verità, conservando però alla parola modernità un senso di rispetto per l'arte e non confondendola con gli sgambetti buffoneschi e le ricerche pseudoscientifiche di certi odierni mistificatori, invasati di libidine innovatoria e scandalistica.
A pensarci bene Strauss ha avuto il suo handicap nel fatto di essere contemporaneo di Claudio Debussy che indubbiamente è di statura superiore. Ma chi potrebbe sostenere che nella storia della musica europea egli non abbia occupato uno dei primi posti tra la fine del decimonono e la prima meta del secolo nostro? Epigono di Wagner? Può anche darsi, però, cum grano salis in ogni modo; perché il presentimento di Salomé e di Till nell'autore di Parsifal e dei Maestri Cantori non c'è davvero! anche se, quando Elettra riconosce il fratello, si espanda odore di Tristano e Isotta. Era una ben pesante eredità da prendere quella che lasciava nel mondo della musica il cantore di Lohengrin, e il secondo Riccardo ha saputo con coraggio caricarsela sulle spalle senza scivolare a terra.
E prima di chiudersi nell'eterno silenzio ci ha lasciato nei suoi ultimi Quattro Lieder la prova migliore della sua probità artistica e l'ultima voce del suo "credo" con un accento che parte dal profondo e arriva al profondo del cuore. Potrebbe sembrare - se non si temesse di cadere nella retorica - il ritorno in musica di un'altra voce, quella di un altro grande morente. "Luce, più luce, ancora luce!".
Vittorio Gui
("L'approdo Musicale", Numero I Anno II - Gennaio-Marzo 1919)
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