Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, luglio 24, 2023

La scomparsa dei dilettanti

    
In un suo articolo, comparso su una ri
vista dialettale piemontese («Musicalbran», settembre 1964), Ettore Desderi ha messo praticamente l'accento su un fenomeno trascurato del costume musicale contemporaneo: la scomparsa dei dilettanti o, come scrive il Desderi, «il tramonto del dilettante». La parola non deve fare arricciare il naso ai giovani e ai cosiddetti «puri» per i quali «dilettante» è sinonimo di autodidatta pasticcione e suona, generalmente, ingiuria. Si onoravano del titolo di «dilettante», nei secoli andati, fior d'ingegni tra i quali, tanto per fare una citazione, Benedetto Marcello, il quale non ebbe paura di definirsi, nella testata settecentesca dei «Concerti a cinque», «nobile veneto dilettante di contrappunto»; e dilettanti si dicevano, nel secolo decimottavo, fior d'ingegni musicali che si radunavano per far musica assieme nelle famose «accademie», cioè sedute musicali, spesso tra loro e, qualche volta, per un pubblico scelto.
    Era un dilettante, ma di qualità, Federico il Grande, come sappiamo; e furono dilettanti, come sappiamo altrettanto bene, quelle signorine di buona famiglia, ottime pianiste, che ebbero per maestri Fryderyk Chopin e Franz Liszt. Il dilettantismo, tra il principio del Settecento e la ine dell'Ottocento, rappresentò uno dei più validi contributi alla divulgazione della buona musica e uno dei maggiori soccorsi alla musica professionale. «All'inizio del secolo (cioè del nostro secolo), scrive il Desderi nel citato articolo, il pianoforte faceva parte, si può dire, del mobilio domestico e attorno ad esso si riunivano abitualmente amici e parenti per "far musica" e, con notevole frequenza, si trattava di musica di alto livello artistico. I dilettanti di quel tempo felice non erano, certo, degli esecutori "finiti" e inevitabilmente si limitavano a decifrare le musiche poste sui loro leggii nel miglior modo possibile».
    Non solo: ma, aggiungiamo noi, era uso tradizionale far impartire una educazione musicale, qualche volta completa, alle ragazze di buona famiglia della borghesia; tanto che avere un pianoforte e saperlo suonare era buon titolo assieme alla dote, per il matrimonio d'una signorina. Naturalmente l'avvento dei mezzi meccanici di divulgazione musicale come la radio e la grammofonia dovevano mutare radicalmente il costume borghese; ma, annota ancora il citato Desderi, «non si può dire che la cultura musicale fosse, allora, meno diffusa, almeno in profondità, di quanto essa sia oggi. Senza dubbio i dischi e le trasmissioni radiofoniche hanno creato un vastissimo pubblico interessato alle più alte e nobili espressioni dell'arte musicale ma non è detto che l'ampliamento della quantità corrisponda ad un miglioramento anche qualitativo».
    D'accordo: il nostro secolo riceve, belli e fatti, i prodotti finiti dell'arte esecutiva: coloro che, una volta, si contentavano d'avere in casa una figlia che decifrava qualche Notturno di Chopin o qualche Sonata di Mozart o di Beethoven oggi hanno in casa, in dischi, le migliori esecuzioni delle medesime pagine, ad opera dei pianisti più famosi del nostro tempo. Troppa grazia, Sant'Antonio! Una delle grandi qualità del dilettantismo era l'accostamento, per dir così, elementare alla pagina musicale nel tentativo di svelarla a se stessi e agli amici: «chi abbia diretta esperienza di cose musicali, scrive assai giustamente il Desderi, sa benissimo che l'audizione non svela, da sola, tutte le bellezze d'una composizione e che queste si rivelano gradualmente soltanto ad un attento e minuzioso esame del lavoro e precisamente alla "lettura" di esso e alla sua diretta realizzazione sonora, anche se approssimativa».
    Che i dilettanti siano quasi completamente scomparsi non fa meraviglia, tenuto conto della frenetica opera di divulgazione musicale che fanno giornalmente i sullodati apparecchi meccanici di riproduzione; ma che questo sia un bene, non direi. La «lettura in prima persona», come la chiama il Desderi, è fonte di gioie ben diverse da quelle propinate in serie dall'audizione  «per interposta persona». D'altra parte il dilettantismo creava, intorno alla musica professionale, un calore umano che si chiederebbe inutilmente a un grammofono o ad una radio, musica, dopo tutto, in scatola le cui deformazioni timbriche, come annota l'articolo citato, sono state accettate per abitudine.
    Ma, si sa, il nostro secolo è il secolo della perfezione gelida, dell'impeccabilità in frigorifero, della cultura in pillole, del capolavoro in cellophan. Tutto va troppo bene per essere vero e per esser vivo. Senza andare a disturbare i dilettanti, basta prendere qualche «ricostruzione» grammofonica di esecuzioni pianistiche non di ignoti, ma di famosi concertisti di mezzo secolo fa, dico di un D'Albert, o di un Paderevski, per misurare l'abisso che ci separa dalla musica di allora. Perché quei pianisti, famosi e acclamati cinquanta o settantacinque anni fa, dunque dei professionisti in tutto il senso della parola, suonavano con una imprecisione degna di nota che, nelle esecuzioni d'oggi, non esiste più, ma anche con una emozione che i tecnici infallibili dei nostri giorni sarebbero ben lieti di possedere. Erano i pianisti professionisti d'un mondo il cui gusto musicale poggiava, non è esagerato il dirlo, sui palpiti segreti, sulle emozioni salottiere dei dilettanti; erano i sacri modelli ai quali i dilettanti si rifacevano, ma che dai dilettanti imparavano quel casto e umile amore alla musica che li spingeva verso la decifrazione
d'una pagina come alpinisti alla scalata di una bella e difficile montagna.
    La musica è emozione e trasfigurazione, prima di tutto: il problema tecnico è importante, ma secondario. I tecnici assoluti non hanno mai convinto nessuno anche se si rende omaggio alla loro glaciale perizia, che costa ore e giornate di fatiche e di esercizi. Gli emozionati e i trasfigurati, secondo la qualità del loro talento strumentale, hanno sempre commosso gli ascoltatori, anche se non impeccabili tecnicamente. Ora il nostro secolo è quello della tecnica impeccabile e i secoli andati furono quelli dell'emozione trasfigurante. E' chiaro che, tra i due mali, si debba scegliere il minore. Dove non sia possibile, perché rarissimo, lo sposalizio della perfetta emozione con la perfetta virtuosità, allora si deve dare la preferenza all'emozione pura sulla tecnica pura. Il che vuol dire, in altre parole, che molti dei dilettanti di ieri e di avant'ieri furono più artisti e, perciò, molto più persuasivi, dei tecnocrati di oggi.
    Uno degli ultimi dilettanti dei nostri giorni è stato André Gide. Lo sappiamo da numerose note del suo «Journal» e, soprattutto, da quel suo curioso libretto che s'intitola «Notes sur Chopin». Mi sembra che proprio Gide rappresenti la fase conclusiva del dilettantismo storico, cioè la sconfitta del dilettantismo come emozione di fronte alla tecnica come ambizione. Perché mi sembra che Gide si sia soprattutto preoccupato di suonare con una perfezione «éblouissante» anziché di accarezzare la musica con la appassionata umiltà dei donnaioli timidi. Gide sognava, per esempio (e consegnava il sogno, al mattino, nel suo diario) di suonare gli Studi di Chopin con una tecnica meravigliosa, ma non mi risulta che abbia mai sognato di eseguirli con un minimo di emozione musicale. Dilettante, dunque: perchè suonava il pianoforte a modo suo, leggeva nel silenzio della sua camera, decifrava per sé stesso, eccetera; ma dilettante, e questo traspare tra le righe dei suoi scritti, umiliato dalla tecnica che non possedeva e che avrebbe voluto possedere.
    Scrive ancora il Desderi, e noi approviamo senza restrizioni: «sono convinto che una civiltà musicale priva della presenza attiva del dilettante è mutila di un elemento essenziale alla sua vitalità: è una civiltà in decadenza, condannata a diventare sempre più arida e intellettualistica, o, nella migliore ipotesi, a vivere sul passato». E ancora: «La frattura fra pubblico e compositori d'avanguardia è un dato di fatto inoppugnabile, ma tale frattura non sarebbe stata altrettanto profonda se oggi esistessero ancora dilettanti per i quali le musiche dodecafoniche non presentassero problemi ben più ardui di quelli che riuscivamo a penetrare noi, ai nostri tempi, affrontando Debussy o Richard Strauss, Ravel o Max Reger». Sono affermazioni oneste, nate da una convinzione onesta.
    D'altra parte che genere di dilettanti potrebbero esserci ancora oggi, in giro per il mondo? Sopravvivono, sparuti e derisi, alcuni dilettanti di pianoforte che sono, generalmente, dediti alla cosiddetta «musica leggera» e suonano, del resto, malissimo. Non esiste più, se non in misura minima, l'abitudine di far musica d'insieme tra non professionisti. E, per contro, il professionismo è diventato una vera piaga sociale, dove su cento individui, forse uno solo merita d'aspirare alla modesta ma onesta gloria dei grandi dilettanti d'un tempo.
Gian Galeazzo Severi
("Rassegna Musicake Curci", anno XIX n. 3 marzo 1965)

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