«Vi è così poco da aspettarsi dall'Austria in rapporto alla politica, come dall'Italia in rapporto all'arte», scriveva Liszt a Wagner da Weimar, il 26 agosto 1958. Da informazioni raccolte e passi avanzati, egli giudicava che, per il grande amico, esiliato dalla patria e sul punto di lasciare anche la Svizzera, dove aveva dimorato per otto anni, Venezia non fosse residenza opportuna.
In un'altra lettera, indirizzata a Wagner da Salisburgo nell'ottobre successivo, Liszt aggiungeva: «Tu sei profondamente radicato nel suolo tedesco, sei e rimani lo splendore e la gloria dell'arte alemanna, e finché le condizioni dei teatri stranieri non cambieranno, finché Meyerbeer e Verdi regneranno sovrani, e dalla loro immediata influenza dipenderanno direzioni teatrali, cantanti, direttori d'orchestra, stampa e pubblico, bisogna che non t'immischi affatto in tali faccende».
Per Liszt che (una volta tanto con scarso discernimento critico) poneva Meyerbeer e Verdi sullo stesso piano artistico, il trionfo di Wagner in Italia doveva essere condizionato dalla caduta di Verdi. Non c'era posto per entrambi. Se Wagner vi si fosse affermato, vincendo incomprensioni, prevenzioni, ostilità, inveterate abitudini, ciò avrebbe significato l'avvento di un nuovo ordine teatrale, una totale inversione di valori, un rinnovamento delle forme e delle formule del melodramma, di cui Verdi e Meyerbeer gli apparivano in quel momento come i più autorevoli rappresentanti; ed essi avrebbero dovuto sparire. Il che fu vero per Meyerbeer, col quale tramontarono un gusto e un costume teatrale, legati a doppio nodo alla concezione dell'opera storica, nei suoi aspetti più caduchi; ma ognun vede quanto lo sia stato per Verdi, oggi più vivo che mai.
Uno scrittore moderno, Franz Werfel, ha posto in un suo romanzo Verdi e Wagner in melodrammatica antitesi, mostrandoci l'italiano pavido e ansioso di fronte all'inarrestabile ascesa del rivale, dubitoso di sé e dell'opera sua; ed altri hanno formulato interpretazioni e giudizi non meno aberranti, di cui oggi è anche troppo agevole dimostrare l'inanità e l'inconsistenza; oggi che Wagner e Verdi non solo non si escludono più a vicenda, ma figurano l'uno accanto all'altro nel cartellone d'ogni stagione teatrale di qualche rilievo, dove costituiscono i pilastri di sostegno e raccolgono ugualmente gli universali suffragi.
Ma l'acquisto di questo punto di vista per noi così ovvio, inquadrante i due grandi maestri nella giusta prospettiva storica di due tradizioni e di due civiltà artistiche, fu arduo e vivamente controverso, e non si fece strada che assai lentamente tra equivoci e fraintendimenti troppo spesso grossolani. Per limitarci al caso dell'Italia, se il basso livello culturale del pubblico e la scarsa preparazione della critica, alla quale spettava il compito d'illuminarlo, ritardarono fino al 1871, anno della rappresentazione bolognese del «Lohengrin», l'ingresso di Wagner in Italia, l'apparizione del misterioso cigno, mandando i cervelli in ebollizione, segnò per Verdi, che in quegli anni sembrava voler concludere il suo glorioso cammino con l'«Aida» e la «Messa da Requiem» in memoria del Manzoni, l'inizio d'un periodo durante il quale egli si sentì spesso rivolgere la più stolta e infondata delle accuse: quella di wagnerismo. Accusa di cui i più sprovveduti e inavveduti credettero poi trovare una conferma nei due ultimi capolavori, che in realtà sono non meno lontani da Wagner di qualsiasi delle opere anteriori e non meno profondamente impressi dal suggello indelebile e inconfondibile dell'individualità verdiana, anche se il compositore nostro non vi si dimostra immemore di taluni insegnamenti wagneriani, ormai definitivamente acquisiti all'opera in musica. L'imprecisione delle idee, la sommarietà delle conoscenze, la mancanza di ben ragionati principi estetici danno alla critica del tempo un aspetto di superficiale dilettantismo. Un saggio significativo ci è offerto dai giudizi sull'«Aida» che Salvatore Farina raccolse e riportò sulla «Gazzetta Musicale di Milano», spigolando tra i critici più reputati e benevoli e così sintetizzandone il pensiero: «Verdi ha accettato da Wagner e da Gounod quanto poteva, rimanendo italiano». Già quell'abbinamento di Wagner e Gounod nella pretesa influenza esercitata su Verdi è una vera perla critica. Ma, anche prescindendo da questo, dove si faccia sentire l'influenza di quei due compositori così reciprocamente alieni e incomparabili per importanza è significato nella verdianissima «Aida» è un problema che soltanto Strawinski (spesso in vena di boutades salottiere, sì da proclamare il «Falstaff» «la più bella opera di Wagner») potrebbe forse aiutarci a risolvere.
Chi vedeva le cose con maggior chiarezza, era in fondo lo stesso Verdi. Non già ch'egli andasse completamente immune dai pregiudizi del suo tempo, tra i quali è quello da lui ripetutamente espresso nelle sue lettere, che gl'italiani non siano fatti per la musica strumentale. Pregiudizio assai largamente condiviso, e che portò a quella curiosa forma di amnesia storica per cui l'Italia, dopo aver creato ed anche notevolmente ampliato e sviluppato nel Sei e Settecento tutte le forme del moderno strumentalismo e sinfonismo, fecondando la magnifica fioritura del romanticismo tedesco, entrò sotto questo rispetto, nella prima metà dell'Ottocento, in un periodo di stasi creativa quasi completa, rotta soltanto dall'apparizione meteorica del virtuosismo paganiniano. E tuttavia Verdi, pur limitando la vera musica italiana a quella d'opera, enuncia su di essa idee precise, che ricava dalla propria viva esperienza; e, specie per ciò che concerne i rapporti tra la musica italiana e la tedesca, di cui allora molto si discuteva e che l'apparizione di Wagner rese di scottante attualità, esprime su tale soggetto, con la precisione concisa e recisa che è propria del suo stile epistolare come della sua musica, opinioni limpidissime, ed anche, non di rado, ben motivate ed attendibili.
Sull'essenza della musica Verdi enuncia due punti di vista in apparenza contradittori, ma in realtà convergenti e integrantisi a vicenda. La vera musica - egli dice - sta al disopra di tutte le divisioni di scuole; non é italiana, né tedesca; non è armonia, né melodia; ne del passato, né dell'avvenire: è musica. E altra volta - quasi antinomicamente -, la vera musica è sempre nazionale, legata ai caratteri e alla fisionomia d'un popolo. Così il 17 aprile 1872, all'amico Cesare De Sanctis, egli scrive da Parma: «Cosa significano mai queste scuole, questi pregiudizi di canto, d'armonia, di tedescheria, d'italianismo, di wagnerismo; etc. etc.? Vi è qualche cosa di più nella musica. Vi è la musical... Che il pubblico non s'occupi dei mezzi di che l'artista si serve!... non abbia pregiudizi di scuola... Se è bello, applauda. Se è brutto fischi!... La musica è universale». E, nove giorni dopo, allo stesso: «No, no, non vi è musica italiana, né tedesca, né turca... ma vi è una musica!!». E le citazioni in tal senso si potrebbero moltiplicare.
Ma vent'anni dopo, allorché il famoso pianista e direttore d'orchestra Hans von Bülow, che aveva lungamente accomunato il suo entusiasmo per Wagner con la disistima per Verdi, manifestata anche pubblicamente, pienamente conquistato dall'«Aida», dall'«Otello», dalla «Messa da Requiem», fece ammenda del suo errore e delle sue intemperanze polemiche con una nobilissima lettera al Maestro, questi, tra l'altro, gli rispondeva: «Se le vostre opinioni d'una volta erano diverse da quelle d'oggi, voi avete fatto benissimo a manifestarle; né io avrei mai osato lagnarmene. Del resto, chi sa... forse avevate ragione allora.
«Comunque sia, questa vostra lettera inaspettata, scritta da un musicista del vostro valore e della vostra importanza nel mondo artistico, m'ha fatto un gran piacere! E questo, non per la mia vanità personale, ma perché vedo che gli artisti veramente superiori giudicano senza pregiudizi di scuole, di nazionalità, di tempo.
«Se gli artisti del Nord e del Sud hanno tendenze diverse, è bene che siano diverse! Tutti dovrebbero mantenere i caratteri propri della loro nazione, come disse benissimo Wagner. Felici voi che siete ancora i figli di Bach... ».
Quale fu dunque l'atteggiamento di Verdi di fronte a Wagner? Fu quello d'una progressiva comprensione, d'un graduale approfondimento. Ancora nel 1865 (l'anno della rappresentazione del «Tristano»), Verdi, dopo aver sentita l'ouverture del «Tannhäuser», pensa «è matto!». Ma al tempo del1'«Aida» (1870-71) legge gli scritti wagneriani nella traduzione francese (quella italiana non esisteva ancora), e, per la rappresentazione di quell'opera, impartisce per la disposizione dell'orchestra direttive che s'attengono a quelle esposte da Wagner, e da lui accoglie l'idea dell'orchestra invisibile. Il 5 gennaio 1882, a proposito di Berlioz, scrive: «Aveva il sentimento dell'istrumentazione e ha preceduto Wagner in molti effetti d'orchestra. (I wagneriani non ne convengono ma è così)». L'anno dopo, il 13 febbraio, Wagner si spegneva a Venezia. Il giorno successivo Verdi indirizza a Giulio Ricordi queste parole, che lo mostrano pervaso da un sincero e degno compianto, da quell'alta malinconia che sempre domina i cuori non volgari, alla scomparsa di coloro che più alto ascesero nell'ideale, nella bellezza, nella verità: «Triste. Triste. Triste. Wagner è morto. Leggendo ieri il dispaccio ne fui, sto per dire, atterrito. Non discutiamo. E' una grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un'impronta potentissima nella Storia dell'Arte».
E il musicista? Fino a qual segno guardò a quel grande modello e ne trasse realmente partito? Fin dove giunsero le sue riflessioni e le sue conclusioni, durante il lungo silenzio che precede «Otello» e «Falstaff», rotto soltanto dal rimaneggiamento del «Simon Boccanegra»? Domanda non intempestiva e inopportuna, nella coincidente ricorrenza commemorativa dei due sommi, nati nello stesso anno.
E, diciamolo subito, nulla ci appare più inattendibile, più remoto dal vero dell'asserzione tante volte ripetuta (ed anche di recente) che Verdi sia uscito dalla propria orbita per entrare in quella del suo antagonista. Verdi guardò certo a Wagner, ma vi guardò con 1'occhio d'aqui1a del genio, serbandosi intimamente fedele agli imperativi della propria arte. Affinò l'orchestrazione, ma non mortificò la vocalità, che anche nelle due ultime opere rimane in primo piano; ruppe gli schemi convenzionali del pezzo chiuso, ma serbò alla frase la nitida modellatura del periodo melodico; accolse il cromatismo e scaltrì la tecnica armonica ma non obliterò i caratteri a lui connaturati della chiarezza, dell'evidenza, dell'icastica incisività, del colpir direttamente nel segno, del tratto asciutto e preciso, senza ridondanze e frondosità; epurò il suo stile e allargò la cerchia dei mezzi compositivi, ma non rinunciò ad alcuno dei suoi caratteri essenziali, alla shakespeariana totalità del suo sentimento umano e terreno, alla sua fibra drammatica, alla sua personalissima maniera di sentire e di cantare il dramma; insomma: non ignorò Wagner, accolse anzi alcuni elementi della sua riforma drammatica, ma li fece così compiutamente propri da farli apparire (non per deliberato proposito ma per virtù d'incoercibile forza creativa), come estratti dal proprio intimo, attraverso un processo di esplorazione e di approfondimento tutto interiore, frutto d'uno svolgimento autonomo, d'una necessità scaturita dal pieno esplicamento e potenziamento della sua stessa personalità.
Non si può quindi accettare l'asserzione fatta di recente da un critico di molto valore, che nell'«Otello» e nel «Falstaff» Verdi sia passato «dall'opera al dramma», perché drammi musicali potenti, vibranti, scultorei sono nella loro sfera e secondo le loro prospettive e finalità il «Rigoletto», «La traviata», «Il trovatore». E non si fa qui eccezione neppure per il «Don Carlos», non potendosi consentire che in quest'opera vi siano tracce di «decadentismo wagneriano» (formula poco appropriata ad entrambi), poiché anche in questo spartito il vigore creativo di Verdi appare integro ed intatto, l'invenzione musicale singolarmente nuova, copiosa e magistralmente elaborata, alcuni caratteri e scene d'una sorprendente novità di concezione e intensità di realizzazione (per esempio il carattere di Filippo II, così mirabilmente rilevato nella sua regale solitudine e nella sua umana malinconia, espressa nel monologo famoso, e che stupendamente si determina e s'innalza nella scena col Grande Inquisitore, dove la ragion di Stato si erge contro quella del cuore, la necessità politica contro il sentimento paterno; situazione nuovissima alla scena lirica, espressa con un pathos commovente e solenne).
Il decadentismo che si crede riscontrare in quest'opera non proviene da più o meno percettibili influssi wagneriani, ma dall'esplorazione di stati d'animo nuovi al poliedro psicologico della musicalità verdiana, dall'intensa penetrazione di un dramma morboso ed ambiguo, a cui il compositore aderisce con una convergenza di forze e di facoltà raramente distratte da indulgenze melodrammatiche. Dramma certamente alieno dalla tempra morale di Verdi, integra e schietta, ma al quale egli tuttavia aderisce fortemente, in virtù di quelle capacità di trasferimento e d'oggettivazione, proprie del vero drammaturgo, ch'egli possiede in alto grado e che gli fanno risentire i torbidi fermenti di repressioni tortuose e di cupe passioni che vi serpeggiano, sullo sfondo d'un amore colpevole.
Non ha quindi senso parlare di «Wagnerismo» o di «conversione a Wagner» a proposito di Verdi, e sia pure soltanto per le ultime opere. Il genio è sempre assimilatore; e Verdi (che pur meno di qualsiasi altro musicista, tranne forse Chopin, assimilò dall'esterno), non poteva non accorgersi d'una personalità così potente e permeante come quella wagneriana; e, segnatamente, non poteva non tener conto di alcune idee fondamentali enunciate da Wagner, che hanno segnato un taglio netto nella storia del melodramma, ove Wagner sta ad indicare un «prima» ed un «poi» assolutamente irreversibili. Ma Verdi rimane sempre Verdi, cioé uno dei compositori più originali e personali che mai siano apparsi, senza scuola o maniera, e, come ben fu detto, «beethoveniano senza conforti metafisici», senza aperture trascendenti. «Nessuno - ha scritto Arrigo Boito - ha, meglio di Verdi, compreso ed espresso il senso del vivere. Egli era uomo tra gli uomini ed osava esserlo. Se gli si fosse offerto di diventare un Dio, avrebbe rifiutato, perché egli amava di sentirsi umano e vincitore nel cerchio ardente della prova terrena».
Antonio Capri
("Rassegna Musicale Curci", anno XVII n.3, settembre 1963)
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