Nell'ottobre dello scorso anno Joseph Szigeti ritornò alla sua nativa Budapest, per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, in veste di giudice per il Settimo Concorso Internazionale di Musica che si svolgeva in quella città.
Siamo lieti di pubblicare lo scritto del celebre violinista, nel quale egli descrive le impressioni di questo soggiorno.
Dei risultati ottenuti al Concorso Internazionale di Budapest, nello scorso ottobre 1963, dai concorrenti delle tre categorie (Violoncello, Duo di violino e pianoforte e Quartetto d'archi), avrete avuto notizie in questi ultimi mesi, ed ora non c'è motivo che io esprima le mie impressioni quale Presidente Onorario della Giuria.
La caratteristica dominante di questo Concorso fu l'insolito alto livello dei violoncellisti e, per converso, quello piuttosto basso dei concorrenti di Duo e di Quartetto che raramente raggiunsero la coesione e la sottigliezza stilistica propria dei complessi d'assieme (nessun primo premio fu attribuito a queste due categorie).
Vi furono pochi competitori italiani e nessuno di essi fu premiato; tuttavia, durante queste liete settimane musicali, vi furono brillanti partecipazioni italiane degne di rilievo: mi riferisco al notevole successo dei concerti di Carlo Maria Giulini ed alla produzione televisiva del «Volo di notte» di Dallapiccola (prima rappresentazione assoluta in TV) che purtroppo persi a causa di altri miei impegni.
Le interpretazioni di Giulini delle opere di Beethoven e Brahms, dei «Quadri di una esposizione» di Mussorgsky e dei «Quattro pezzi sacri» di Verdi riscossero, da quanto mi fu riferito, acclamazioni unanimi.
Ma ciò che intendo scrivere ora è al di fuori del Concorso.
E' difficile non cadere nel sentimentalismo ritornando al proprio luogo di nascita dopo ben ventiquattro anni. Tutto quanto vi circonda lo favorisce. Ascoltare Kodály ricordare i tempi in cui ero un fanciullo biondo di dieci anni o quando mi udì suonare la semplice Sonatina di Schubert una trentina di anni fa; ascoltare il poeta e filosofo Milan Füst parlare delle lezioni di violino che gli diede mio padre sessant'anni fa; persino il cibo che si mangia e il vino o il succo di amarena che si beve: tutto ciò non può certamente condurre alla stesura di un articolo ad alto livello intellettuale.
Vi parlerò un poco di Kodály, col quale mi trattenni prima a casa sua e poi nella sede degli «Archivi Bartók», oltre ad averlo ascoltato parlare in occasione della conferenza che tenni nella Sala grande della
Accademia di Musica «Franz Liszt» per insegnanti, studenti ed appassionati di musica.
Mi era stato chiesto di fare, in questa conferenza, quattro chiacchiere alla buona per gli studenti di strumenti ad arco ed i loro insegnanti; ma questo cosiddetto «avvenimento familiare» si sviluppò poi in una conversazione di due ore e mezza di fronte ad un uditorio di circa otto-novecento persone. Dopo che ebbi sfiorato vari problemi di carattere tecnico e stilistico, venne suonato il mio disco della «Partita in re minore» di Bach.
Kodály e sua moglie sedevano in prima fila, e quando egli si alzò per ringraziarmi e per ricordarmi alcuni episodi della mia infanzia (egli mi conosceva da quando avevo dieci anni) per un attimo mi balenò davanti agli occhi l'immagine dell'educatore Kodály al lavoro.
Egli si servì di questa occasione per mettere in evidenza che alcune delle anomalie musicali da me condannate avevano la loro origine, e causa, nella mancanza di esercitazioni propedeutiche, fondate sul solfeggio, tra gli strumentisti ad arco. Poi, praticamente scuotendo l'indice verso l'assemblea di insegnanti, disse: «Verrà il giorno in cui persino gli insegnanti di violino torneranno al solfeggio!». E questo fu un chiaro appunto alle generali abitudini della routine pedagogica e musicale che egli sta combattendo in questi ultimi decenni.
L'impressione dominante che Kodály lascia costantemente è quella di una serenità che nasce dalla consapevolezza del lavoro ben compiuto, controbilanciata, però, da una continua e sollecita attività, ben lontana dall'attitudine a «riposare sugli allori».
Egli era appena ritornato con la giovane moglie dalla Conferenza per educatori di musica di Copenhagen e, poche ore dopo il suo ritorno, era già immerso nella sua abituale attività.
Ascoltò i concerti dei vincitori del Concorso; venne a prendermi a casa della vedova di Bartók, Signora Ditta, informandosi sul suo progetto di lasciare l'appartamento nel quale attualmente vive (piccolo ma confortevole, anche se molto in disordine) per stabilirsi in un condominio di nuova costruzione; quindi, dopo aver pranzato a casa sua, mi mostrò la biografia di Bartók di Pierre Citron, recentemente pubblicata in Francia, traendone spunto per parlarmi della mancanza di senso di avventura di coloro che evitano di immergersi nel libro di Ansermet, sia pur abbastanza impegnativo, sulla filosofia musicale («persino leggerne dei frammenti sarebbe meglio di niente»).
Egli abita ancora nel suo vecchio appartamento situato sul corso alberato che conduce al Museo delle Belle Arti ed al Parco della città e c'è sempre pronta quella sua affascinante moglie a tenere lontano i visitatori inopportuni, rispondendo di solito bruscamente al telefono e permettendogli così di dimenticarsi completamente di questo apparecchio; ed ancora lei, pettine alla mano e incurante della nostra presenza, intervenne sollecita ad acconciargli i suoi ancor lunghi capelli, prima che venisse fotografato con me.
Kodaly, un ottuagenario dalla vista e dall'udito perfetti, e pronto a combattere qualsiasi infrazione al suo programma di educazione musicale, qualsiasi decurtazione di orari nell'Auditorio di Stato.
Ritrovo questa necessità di lavorare in un'età avanzata anche in coloro che si dedicano ad attività meno nobili. Ad esempio nel vecchio ed esperto liutaio che mi disse: «Vedete, ci sono talmente pochi strumenti belli nel mio paese. Io voglio continuare: sono quasi il solo rimasto in questo campo con un'esperienza come la mia».
Molte altre specializzazioni sembrano aver conservato una parte della loro primitiva indipendenza, benché si trovino ovviamente entro il più ampio schema del controllo statale.
Ad esempio, il conto di un abito su misura deve comprendere tutti i dettagli particolareggiati dei vari materiali impiegati nella confezione, escludendo così qualsiasi contrattazione o sovrapprezzo.
Su tutte le pubblicazioni deve essere indicato il numero delle copie stampate, il formato, il peso della carta, il nome delle persone responsabili dell'edizione, della stampa, della tipografia, della produzione e così via. Il che può far dire: «Bene, sai come stanno le cose... in una grande organizzazione come la nostra... » cosa, invece, molto vicina all'impossibilità quando arrivano dei reclami (quello più frequente, nel campo editoriale, si riferisce all'inadeguatezza delle prime edizioni che, spesso, si esauriscono nel giro di poche ore).
Fui piacevolmente sorpreso nel constatare che il «responsabile», il cui nome si trova sul retro della maggior parte delle pubblicazioni musicali ungheresi fatte dallo Stato, fosse Béla Tardos: un abile compositore, le cui opere corali e per quartetto sono molto eseguite.
Non ho mai sentito niente di simile alle orchestre scolastiche ed ai cori di fanciulli e giovani, od al Coro di voci bianche della Radio ungherese. Quale spigliatezza di attacchi e di intonazioni in questi bambini dai pantaloncini corti e dalle bluse alla marinara, quale sicurezza nei passaggi di tono delle complesse opere corali di Bartók e Kodály! Ed essi cantano senza musica!
Ho ascoltato orchestre giovanili suonare composizioni ungheresi contemporanee scritte appositamente per loro - alcune con tempi di 5/8 - eseguendole con grande sensibilità.
Tutto ciò non deve meravigliare, sapendo che a Budapest esistono asili infantili in cui i bambini di tre anni imparano a cantare, fanno giochi con la musica e praticano un solfeggio elementare. Evidentemente si crede nella musica «fatta da sè» piuttosto che in quella «competenza musicale» che consiste, soprattutto in America, nel ricordare le date di nascita e di morte dei compositori, con una musicologia da copertina di disco.
E per tutto questo si deve ringraziare Kodály.
Non potrò mai dimenticare il concerto dato in mio onore dal Ginnasio «Erzsébet Szilágyi» sovvenzionato dall'UNESCO (l'Ungheria è membro dell'UNESCO da 15 anni). Le fanciulle cantavano prese dal magnetismo della direttrice del coro, con gli occhi fissi su di lei, ed uno dei brani fu un Trio corale di Kodály, dallo stretto contrappunto quasi bachiano, che parve un'Invenzione a tre voci eseguita da legni solisti.
L'influenza di Kodály è evidente persino nell'elenco delle organizzazioni musicali ungheresi, di cui fanno parte complessi con nomi quali «Orchestra Sinfonica degli Impiegati d'ufficio», «Coro dei Lavoratori delle Imprese di costruzione», «Coro delle Smalterie di Budafok», «Giovani Amici della Musica»... e si potrebbe continuare. Ad esempio, una delle più attive orchestre dell'Ungheria si chiama «Orchestra Sinfonica delle Ferrovie di Stato». Essa è composta da musicisti professionisti che viaggiano attraverso il Paese, talvolta nelle loro stesse carrozze letto, allo scopo di portare la buona parola - o meglio la letteratura sinfonica - in luoghi dove non era mai giunta. E questa fu l'orchestra che accompagnò due dei tre vincitori del Concorso di violoncello nei Concerti di Dvorák e Sciostakovic (e li accompagnò in modo egregio).
Queste numerose associazioni musicali, cori ed orchestre accolsero tutte ed acclamarono - e fu un momento meraviglioso - persino quei concorrenti che caddero nelle semi-finali. Questa p una delle caratteristiche del Concorso di Budapest, che né il Concorso di Bruxelles ne quello di Ginevra possiedono. Tale caratteristica è unicamente prodotta dalla convinzione, di tutti questi entusiasti di musica pratica, che chiunque, vincitore o no, abbastanza coraggioso da affrontare la prova, è meritevole di essere ascoltato con orecchio ben disposto, applaudito ed accolto con un fraterno abbraccio. E cosi molti di questi concorrenti rimangono, e dimenticano l'amarezza della sconfitta suonando presso queste associazioni nelle serate non ufficiali.
Sugli «Archivi Bartók» e sulla «Mostra Bartók-Kodály» si potrebbero scrivere molte pagine.
Vi sono settantadue composizioni inedite di Bartók, precedenti la sua Op. I (tra queste, una semplice Sonata per violino e pianoforte del 1895 ed una seconda del 1897 - molto brahmsiana - più un Quartetto con pianoforte ed un Quintetto incompiuto); la sua libreria, comprendente «Ulisse» di Joyce nella prima edizione parigina, «Don Chisciotte» in spagnolo e tedesco, Proust, Shakespeare, Aldous Huxley, Goethe, ecc., e forse tre o quattro dozzine di dizionari (arabo, turco, croato, russo, polacco, cecoslovacco). E rimasi veramente impressionato dall'attività quasi da formiche del gruppo di bibliotecari che curano questi archivi, capeggiati dal Dottor B. Szabolcsi e dal Professor Denys Dille, un ex-prete belga che dedica ora la sua vita a Bartók.
Dappertutto, a Budapest, vi sono leggii: al bar della Radio, presso gli ascensori di qualsiasi palazzo di uffici, in quelle case patrizie che ora sono usate dai Ministeri e dalle organizzazioni di esportazione, nelle biblioteche viaggianti, ovunque.
Una delle poche delusioni che mi capitò di provare nel mio soggiorno, fu provocata dalle anacronistiche forme di cortesia tuttora in pieno vigore: «Degnatevi di comandarmi» e «Alla vostra preziosa salute» (quando il cameriere vi posa davanti un piatto di minestra). Una volta un maitre d'hotel, consigliandomi di assaggiare un dolce delizioso, usò addirittura un'espressione settecentesca alla fine della sua «chiacchierata da imbonitore»: mi disse, infatti, «Vi imploro!» (che, ripensandoci meglio adesso, non è molto dissimile dalla vittoriana «Vi prego, sedete!»). Ma l'abbreviazione del «Bacio la mano» di Johann Strauss, o del periodo del «Cavaliere della Rosa» o della «Vedova Allegra», è ancora più ridicola nell'Ungheria odierna. Tralasciando la parola «mano», essi ora dicono «Bacio...», e lo dicono alla cassiera (talvolta di mezza età) di una libreria o di un qualsiasi altro negozio!
Un'altra delusione mi fu data dalle onnipresenti orchestre tzigane, con le loro serenate di Toselli e le loro imitazioni del cinguettio degli uccelli con armonici e glissandi nelle più acute estensioni del violino.
Sui menus sono segnati due prezzi differenti: uno senza musica, e l'altro (molto più elevato) quando l'orchestra suona. Ho sentito dire che vi sono agitazioni in corso per ridurre il prezzo del pranzo «con orchestra».
Gli istituti di bellezza seguono due turni di orario: dalle 6,30 fino alle 15 e dalle 15 alle 21. Il pensare che le giovani ungheresi che lavorano sacrificano ore di sonno per andare alle 6,30 del mattino in questi istituti, prima di recarsi in fabbrica, a scuola, all'ospedale o in ufficio, dà un senso di tenerezza
Joseph Szigetí
("Rassegna Musicale Curci" anno XVIII n. 3 settembre 1964)
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