Robert Craft: In che misura lei ha collaborato con Cocteau all'Oedipus rex? Quale è stato il suo intento nel tradurre il libretto in latino? Quali erano le sue idee iniziali per la messinscena del lavoro, e sono mai state realizzate? Cosa intende per opera-oratorio?
Igor Stravinsky: Dato gli inizi dell'Oedipus rex al settembre 1925, ma da almeno cinque anni prima avvertivo il desiderio di comporre un lavoro drammatico di ampie dimensioni, dopo aver composto soltanto musica da camera durante la guerra. Tornando in quel periodo da Venezia a Nizza mi fermai a Genova, per rinnovare il ricordo di questa città dove avevo trascorso il mio quinto anniversario di matrimonio, nel 1911. Là vidi su una bancarella una vita di san Francesco d'Assisi, che comprai e lessi la notte stessa. A questo libro devo la formulazione di un'idea che mi si era affacciata fin da quando ero diventato un déraciné. L'idea era che un testo per musica poteva essere dotato di un carattere monumentale traducendolo - per così dire a ritroso - da una lingua secolare in una lingua sacra. «Sacro» può significare semplicemente «più antico», come potremmo dire che la lingua della Bibbia di re Giacomo è più sacra della lingua della New English Bible, se non altro per l'età più veneranda. Ma io pensavo che una lingua più antica, anche imperfettamente ricordata, avesse necessariamente un che di incantatorio, sfruttabile in musica. Me ne dava conferma l'esempio dello stesso Francesco d'Assisi, con il suo uso ieratico del provenzale, la lingua poetica del Rinascimento del Rodano, invece dell'italiano o basso latino quotidiano. Prima di quel momento di illuminazione a Genova non avevo saputo risolvere il problema linguistico delle mie future opere vocali. Il russo, la lingua esule del mio cuore, era diventato musicalmente impraticabile, e il francese, il tedesco e l'italiano mi erano estranei. Quando lavoro con le parole in musica i miei succhi creativi sono stimolati dal suono e dal ritmo delle sillabe. «In principio era il verbo» è per me una verità letterale, puntuale. Ma il problema fu risolto, e la ricerca di un «pur langage sans office» terminò con la mia riscoperta del latino ciceroniano.
La decisione di comporre un lavoro sul dramma di Sofocle sopravvenne subito dopo il mio ritorno a Nizza, ma la scelta era prestabilita. Avevo bisogno di una trama universale, o almeno tanto nota da non costringermi a lungaggini nell'esporla. Desideravo lasciar da parte l'azione teatrale, pensando di distillarne l'essenza drammatica e di concentrarmi più liberamente su una drammatizzazione puramente musicale. Vari miti greci mi vennero in mente nel considerare il soggetto, e poi, in automatica successione, pensai alla tragedia che più avevo amato in gioventù. In un ultimo momento di dubbio riesaminai la possibilità di usare una versione in lingua moderna di un mito, ma solo la Phèdre rispondeva al mio concetto di statuario, e quale musicista potrebbe respirare in quel metro?
Invitai Cocteau a collaborare con me all'Oedipus perché ammiravo la sua Antigone. Gli confidai le mie idee e gli spiegai che non volevo un dramma d'azione, ma una «natura morta». Dissi anche che il mio ideale era un libretto convenzionale con arie e recitativi, pur sapendo che il convenzionale non era il suo forte. Sembrò entusiasta del progetto (meno dell'idea che le sue frasi sarebbero state riscritte in latino); ma la prima stesura del suo libretto fu esattamente quello che non volevo: un dramma musicale in prosa fiorita.
«Dramma musicale» e «opera» si sono da un pezzo confusi insieme, ma nella mia testa erano categorie ben distinte, e giungevo a sostenere che l'orchestra ha un ruolo interpretativo più ampio ed esteriore nel «dramma musicale», e simili idee estenuanti. Sostituirei adesso questi termini con «opera in versi» e «opera in prosa», identificando le due categorie rispettivamente con chiari esempi come The Rake's Progress per la prima e Erwartung per la seconda. Divisioni di questo tipo, per quanto artificiose, a me sono necessarie.
Cocteau accettò pazientemente le mie critiche e riscrisse il libretto due volte, sottoponendolo perfino, dopo di ciò, a un'ultima tosatura. (Sono per indole un cultore dell'arte topiaria, e amo molto potare le cose). Che cos'è puramente di Cocteau nel libretto? Non sono più in grado di precisarlo, ma direi meno la sua struttura che la gesticolazione del fraseggio. Non mi riferisco all'uso di ripetere le parole, che mi è abituale. L'idea del narratore o speaker fu di Cocteau, e cosi l'idea che questi vestisse il frac e si atteggiasse a conferenziere (che troppo spesso è sinonimo di cerimoniere). Ma la musica va al di là delle parole, e la musica fu ispirata dalla tragedia di Sofocle.
Visualizzai la messinscena non appena cominciai a comporre la musica, vedendo per prima cosa il coro, seduto in un'unica fila da un capo all'altro del proscenio, sul davanti. Il coro avrebbe letto dei rotoli di pergamena, e soltanto questi e il profilo delle teste incappucciate dei lettori dovevano essere visibili. Il coro, pensai, non doveva avere un volto.
La mia seconda idea fu che gli attori calzassero coturni e stessero ritti su piedistalli dietro al coro, ogni personaggio a un`altezza diversa. Ma «attori» non è la parola giusta. Nessuno «agisce». Solo il narratore si muove, e solo per distanziarsi dalle altre figure in scena. L'Oedipus rex sarà o meno un'opera in virtù del contenuto musicale, ma certamente non è operistico nel senso del movimento. I personaggi si rapportano l'un l'altro non con gesti, ma con le parole. Non girano nemmeno la testa per ascoltare i discorsi altrui, rivolgendosi direttamente al pubblico. Pensai che dovessero stare rigidamente diritti. La mia prima concezione era che i personaggi fossero rivelati di volta in volta alzando piccoli sipari individuali, come nell'Histoire du soldat, ma presto mi resi conto che lo stesso effetto si poteva ottenere più facilmente con l'illuminazione. Come il Commendatore, i cantanti dovevano essere illuminati durante le loro arie, poi tornare nell'ombra, come statue galvanizzate vocalmente. Edipo invece rimane bene in vista per tutto il dramma, fino al suo «Lux facta est», dopo di che deve cambiare maschera. (Il cambiamento può avvenire al buio, o voltando le spalle al pubblico). La violenza contro sé stesso è descritta, non rappresentata: Edipo non deve muoversi. I registi che lo fanno sparire di scena e poi riapparire realisticamente barcollante non hanno capito niente della mia idea.
Spesso mi chiedono perché io abbia voluto comporre un'opera da museo delle cere. Rispondo che aborro il verismo; ma una risposta completa sarebbe più positiva e più complessa. Intanto, considero questa rappresentazione statica un modo più efficace di concentrare la tragedia non su Edipo stesso e sugli altri individui, ma sullo sviluppo fatale che, per me, è il significato del dramma. Il pubblico non deve essere indifferente al destino della persona, però assai più deve badare alla persona del destino e al suo delinearsi, che si può esprimere unicamente in musica. Ma nella misura in cui la visualizzazione può essere d'aiuto, le figure in scena sono drammaticamente isolate e impotenti proprio perché sono plasticamente mute, e il ritratto dell'individuo come vittima delle circostanze è reso più nudamente efficace da questa presentazione statica. I crocevia sono impersonali, geometrici. E ciò che mi interessava era la geometria della tragedia, l'inevitabile intersezione delle linee.
Mi hanno chiesto perché non ho fatto un passo in più e non ho usato marionette, come ha fatto una volta il mio amico Robert Edmond Jones per una rappresentazione dell'Oedipus al Metropolitan. L'idea effettivamente mi venne, e avevo molto apprezzato le marionette di Gordon Craig quando me le aveva mostrate a Roma, nel 1917. Ma io amo anche le maschere, e componendo la prima aria di Edipo lo immaginavo con una maschera ogivale, rosea, come quella di un dio del sole cinese.
Le mie idee sceniche non furono realizzate perché a Djagilev mancò il tempo di allestire l'opera per la prima. La sua esistenza gli fu tenuta nascosta fino all'ultimo momento, e io tardai a terminare la partitura. Ma siccome la prima rappresentazione avvenne in forma di concerto, molti hanno supposto, erroneamente, che io preferissi per l'Oedipus questa forma. L'opera fu composta come dono per il diciottesimo anniversario dei Balletti di Djagilev - «Un cadeau très macabre» commentò lui. Djagilev rimase freddo alla prima, ma penso che forse fosse a causa di Cocteau. Per fargli dispetto, Djagilev scelse deliberatamente un bel giovane per la parte del narratore, ben sapendo che Cocteau l'aveva scritta per sé stesso. I cantanti avevano a malapena imparato le note per 1'esecuzioe in anteprima al pianoforte, che avenne in casa della principessa di Polignac pochi giorni avanti quella pubblica. Dalle reazioni degli ospiti capii che probabilmente l'Oedipus non avrebbe avuto successo col pubblico dei balletti. Ma il mio austero concerto vocale, seguito a un balletto «romantico» e colorito come l'Uccello dí fuoco, fu un fiasco peggiore del previsto. Gli applausi del pubblico furono di pura cortesia, e gli Sganarelli della stampa la cortesia la lasciarono nel cassetto: «Celui qui a composé Pétrouchka nous présente avec cette pastíche Haendelienne... Un tas de gens mal habillés ont mal chante'... La musique de Créon est une marche Meyerbeerienne»... Nel ventennio successivo le rappresentazioni furono scarse, ma poi l'Oedipus è diventato quasi popolare.
Ho partecipato come direttore d'orchestra solo ad alcune rappresentazioni teatrali, e ne ho viste poche altre. (Tra le recenti menzionerei quella dell'Opera di Vienna, in cui l'«e peste» suonava come se i cantanti fossero davvero appestati, e quella dell'Opera di Washington, dove le facce bianche del coro luccicavano come i buchi nel formaggio Emmental). Quella visivamente più gradevole è stata l'edizione di Cocteau al Théâtre des Champs-Elysées, nel maggio 1952. Le sue maschere enormi erano di grande effetto, e così il suo uso della pantomima simbolica, anche se contraddiceva alla mia idea. Fremo nel ricordare le rappresentazioni sceniche alla Kroll Oper di Berlino, sebbene fossero ben preparate da Klemperer. Il narratore portava un costume nero da Pierrot. Lamentai col regista che non vedevo il nesso con la storia di Edipo, ma la sua risposta troncò ogni ulteriore discussione: «Herr Professor Stravinskij, nel nostro paese solo al Kapellmeister è consentito di portare il Frack». Hindemith e Schönberg erano fra il pubblico berlinese, il primo hingerissen [affascinato], il secondo abgekühlt [freddino].
In che senso la musica è religiosa? Non so rispondere, perché questa parola non corrisponde nella mia mente a stati d'animo o a sentimenti, ma a credenze dogmatiche. Posso affermare che la musica fu composta durante il mio periodo di più stretta e fervida ortodossia cristiana. Ai primi di settembre del 1925, con un ascesso in suppurazione al mio indice sinistro, partii da Nizza per eseguire la mia Sonata a Venezia. Avevo pregato in una chiesetta vicino a Nizza, davanti a un'antica e «miracolosa» immagine, ma prevedevo che il concerto sarebbe stato disdetto. Il dito suppurava ancora quando a Venezia entrai in palcoscenico. Mi rivolsi al pubblico, scusandomi in anticipo per un'esecuzione che sarebbe stata inevitabilmente mediocre; poi sedetti alla tastiera, tolsi la piccola fasciatura, sentii che il dolore era ad un tratto cessato, e scoprii che il dito era - miracolosamente, mi parve - guarito. Io credo, s'intende, in un sistema al di là della Natura.
(tratto da "Ricordi e commenti", Igor Stravinsky / Robert Craft
Adelphi, La collana dei casi, n.73, 2008)
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