Johann Jacob Bach - anch’egli musicista - si accingeva a lasciare il tradizionale mestiere della famiglia di cantori ed organisti, per andare a servizio del Re di Svezia Carlo XII, come oboista nella guardia d’onore regia. Partiva verso Altranstäd, probabilmente nel 1704, ed i1 giovanissimo Johann Sebastian lo salutava dedicandogli il secondo dei suoi due capricci per clavicembalo. Il primo lo aveva dedicato ad un altro fratello, quel Johann Cristoph che lo ospitò per cinque anni ad Ohrdruf, dopo la morte dei genitori. Il capriccio era una delle più arcaiche forme clavicembalistiche d’origine italiana, tra cui eccellevano gli esempi di Frescobaldi, ma in Germania si consolida in una accezione particolare, propriamente "fantasia improvvisata che può servire a mettere in luce l’estro e lo spirito del compositore", per dirlo nelle parole di Praetorius (1618). Bach approfitta del carattere improvvisativo di questo genere strumentale per dimostrare il proprio "estro e spirito", piegandolo ai modi espressivi ed imitativi allora diffusissimi, soprattutto nella Germania dei giovani Mattheson, Telemann, Handel, come dire la Germania alla svolta del secolo XVIII. L’intento di Bach in questo Capriccio sopra la lontananza del suo fratello dilettissimo, è infatti fortemente descrittivo e si richiama ad un celebre precedente di Kuhnau. Il venerando e prestigioso maestro aveva scritto intere sonate cembalistiche ed organistiche su storie bibliche, descrivendone minuziosamente gli eventi in suoni con tanto di didascalie illustrative. Vi erano certamente ingenuità, come la fuga canonica utilizzata per descrivere la fuga dei Filistei dopo la sconfitta di Golia, ma nel complesso l’intento era altamente rispettabile. Affondava indietro fin nelle rappresentazioni sonore delle parole poetiche del madrigale italiano cinquecentesco e seicentesco e si proponeva di nobilitare la musica strumentale, immettendovi la dotta e prestigiosa scienza retorica. Metafore e figure avrebbero reso comprensibile e nobile anche l’arte strumentale oltre ad esibire al meglio l’ "estro e lo spirito" del musicista. Bach è pero ben attento a non cadere nelle ingenuità criticate dai teorici più avveduti. Non avrebbe fatto ciò che Burney anni dopo rimproverava a Mattheson: "quel brav’uomo si era dato gran pena perché sulla parola arcobaleno le note e della partitura formassero un arco". Nel suo Capriccio l’intenzione è più narrativa che imitativa. Le didascalie che accompagnano e spiegano il percorso musicale narrano eventi o situazioni affettive cui in qualche maniera la musica dà voce. La prima parte comincia con un arioso in adagio che esprime con melodia carezzante "la lusinga degli amici per trattenerlo dal partire". A questa segue "una rappresentazione delle diverse vicende cui potrebbe andare incontro nel paese lontano" e conclude con un adagiosissimo - "un generale lamento degli amici". La seconda parte comincia con "gli amici che, rassegnati a non vederlo cangiar risoluzione, prendono congedo da lui" per proseguire con la rapida e breve aria del Postiglione. Allegro poco e chiudere con una Fuga all’imitazione della posta che accompagna la partenza del fratello mentre si allontana sulla diligenza postale. L’impianto formale complessivo è pero rigoroso: le due parti concludono simmetricamente, entrambe con le sezioni più lunghe e complesse - circa cinquanta battute ciascuna contro le dieci-venti delle altre sezioni - e in generale Bach alterna attentamente i modi espressivi che possono essere melodie costruite su basso continuo, come nell'aria delle lusinghe degli amici, o episodi contrappuntistici in cui tutte le voci giocano paritariamente alla costruzione di forme rigorose. Anche le descrizioni sono assunte all’interno di una sintassi musicale compatta come accade nel primo grande episodio dove, per rendere il lamento degli amici, Bach si appoggia su una formula di basso ostinato, che da oltre un secolo caratterizzava ogni momento doloroso: quattro note cromatiche discendenti ripetute con insistenza. Erano state allineate tra i primi da Monteverdi e poi portate ad intensissima espressività da Purcell, dagli organisti tedeschi ed utilizzate dallo stesso Bach nella Messa e nelle passioni. Ma anche la partenza della corriera postale viene assorbita in una rigorosa sintassi musicale: Bach inserisce infatti i1 caratteristico segnale sonoro del corno - un salto d'ottava discendente - come controsoggetto della fuga finale. Il medesimo salto d’ottava circola con insistenza anche nella precedente gaia e spensierata aria del postiglione.
Come Bach, anche Beethoven si avventura solo raramente nella descrizione sonora di fatti od eventi e, per esempio, la sua sesta sinfonia - Pastorale - resta un caso pressoché isolato. Piuttosto domina una ricerca lucida e meticolosa, nel tentativo di a1largare le forme musicali ereditate dalla tradizione viennese, esasperandone le potenzialità ed indagandone i confini estremi. Che poi in molte sue composizioni la critica successiva abbia voluto vedere specchiati episodi della vita del musicista, spesso anche titoli, è un'altra questione. E' ciò che accade proprio alla Sonata opera 57. Pubblicata nel 1807 dal Bureau des Arts et d’Industrie di Vienna, sarebbe infatti poi stata ristampata ad Amburgo da Cranz che le avrebbe anche apposto il nome celebre di Appassionata. E' una delle poche opere che contribuirono fattivamente alla costruzione del mito Beethoven ma anche tra quelle che vissero soprattutto una storia di ascolto e fruizione, una di quelle che entrarono insomma subito nel repertorio dei virtuosi.
Dal 1802 e per tutto il primo decennio del secolo la ricerca beethoveniana si applica alla forma sonata, perfetta congerie di equilibrio formale e drammatismo musicale. Nell’opera 57, Beethoven torna alle forme chiuse, concise, drammatiche di Haydn e Mozart, espandendole e rafforzandone la potenza senza distruggerne le proporzioni. In questo senso si muove su più fronti. Da una parte dimostra una inedita attenzione al suono e all’effetto complessivo della composizione, ammettendo anche la timbrica strumentale tra i parametri necessari della forma, così da colmare l’equilibrata struttura della sonata ereditata da Mozart e da Haydn di forza comunicativa ed energia drammatica inconsueta.
"A mio parere [il Suo fortepiano] è troppo buono per me, perché mi togli la libertà di creare i miei toni. Naturalmente questo non deve distoglierLa dal continuare a fabbricare nello stesso modo tutti i suoi fortepiano. Certo, di gente che abbia pel capo grilli come i miei non ce n’e molta." Beethoven a Streicher, 1796.
"Streicher ha abbandonato la meccanica delicata, troppo cedevole e vivace dei vecchi strumenti viennesi e su parere e richiesta di Beethoven, ha dato ai propri strumenti più resistenza ed elasticità, cosicché il virtuoso che suoni con forza e pregnanza possa agire sullo strumento in modo da sostenere e rinforzare il suono. Sarà pù in grado di soddisfare il virtuoso che miri a qualcosa di più di una brillante esecuzione." Reichardt, 1809
Ma per altro verso e la struttura stessa della Sonata che si presenta fortemente virtuosistica. Il virtuosismo è assunto a criterio formale e costitutivo, non semplice rivestimento brillante. Su quello si fonda gran parte della espressività della Sonata che diventa drammatismo emotivamente sconvolgente. La struttura é articolata in due grandi blocchi: i1 grandioso sviluppo dell’allegro assai e il vasto finale preceduto da un breve movimento lento introduttivo. In ciascuno dei due le tecniche drammatiche sono prevalentemente virtuosistiche e possono presentarsi in un arpeggio più volte ripetuto ad accrescere la tensione emotiva. L’estensione si ampia molto verso l’acuto e gli accordi risuonano di valore tematico. Il ritmo insistente che si scatena nel perpetuum mobile finale tratteggia tutta la sonata con una violenza che resta contenuta solo dalla estrema semplicità formale classica. E' infatti la semplicità in cui è tenuta la forma che riesce a contenere e dare ordine alla intensa aggressività cui la materia musicale aspira. Perfino i due temi del primo movimento - tradizionali antagonisti nella forma sonata - sono invece derivati l’uno dall’altro e il tempo lento si organizza anch’esso elaborando il medesimo tema con il criterio della variazioni.
Le ricerche beethoveniane sull’architettura complessiva della sonata giungono tanto lontano da dar luogo a risultati veramente arcani. Solo ben più tardi nel secolo, e parzialmente solo nel nostro, si potranno riannodarne le fila per una reale comprensione ed appropriazione da parte della storia della composizione. Nel frattempo Beethoven incombe come "Titano" irraggiungibile che spinge la generazione romantica a coltivare assiduamente il breve pezzo espressivo o virtuosistico - ma non sempre i due termini sono in opposizione - da salotto, Hausmusik per dilettanti esperti, potremmo dire iniziati.
Già nella produzione di Schubert tali brani occupano una ampia sezione del catalogo. Tra questi stanno gli otto improvvisi, tutti composti negli ultimi mesi del 1827. Quattro sono raccolti nell’opera 90 e quattro nell’opera 142; questi ultimi sarebbero stati pubblicati solo nel 1839 da Diabelli a Vienna. Lasciamo parlare Schumann, che di Schubert era grande estimatore: "Il secondo impromptu ha un carattere più contemplativo, di una maniera frequente in Schubert; il quarto tutto diverso fa il broncio, un broncio però delicato e buono, difficilmente ci si può ingannare, più di una volta m'ha ricordato la collera per un soldino perduto di Beethoven, un pezzo molto comico e poco conosciuto". Lo Schubert degli ultimi anni, e soprattutto lo Schubert degli impromptus, è il compositore che prende le mosse dal Beethoven lirico, un Beethoven che attorno all'anno 1810 stempera il rigore formale sonatistico - nel quale la sua grandezza era pressoché incommensurabile - con un'enfasi lirica che Schubert come i suoi successori possono cogliere e sviluppare appieno. La vena privata, domestica, la stretta simbiosi con l'ambiente raffinato e colto degli aristocratici e borghesi dilettanti ed appassionati è quasi costante nella produzione di Schubert e si riversa anche qui trasformando il genere del pezzo di carattere, improvvisativo e brillante in un brano lirico di intenso patetismo. Ma la destinazione domestica, l'aspirazione lirica di queste composizioni non vuol dire affatto che siano poi di facile esecuzione, anzi, il referente resta il dilettante esperto che spesso può definirsi tale solo perché nell'ambito della Hausmusik non esegue a pagamento, ma per diletto. È significativo che l'editore francese Schott restituisse a Schubert gli otto Improvvisi perché li considerava troppo difficili per il suo mercato prevalentemente composto da amatori.
Ad un inscindibile intreccio di alto virtuosismo ed espressività giunge invece Mendelssohn nelle sue tante composizioni di salotto. Tra queste pubblica nel 1827 a Vienna il Rondò capriccioso op. 14 dove il termine aggettivato serve a diluire il rigore e la nettezza formale che il termine rondò vorrebbe affermare. E in quel capriccioso sta la densità di eventi musicali, e non solo musicali che Mendelssohn riversa nella sua composizione. Brano breve, brillante che Mendelssohn, strizzando certamente l'occhio al salotto, sa tenere in una saldezza tecnica sbalorditiva. Verrebbe da dire che anche questo "capriccio" è narrativo sebbene - a differenza del capriccio bachiano - nessun progetto narrativo sia dichiarato; ma la netta fisionomia ritmica degli incisi, la pulizia formale delle brevi melodie che circolano capricciosamente qua e là nella pagina musicale, affacciandosi liberamente ora in un registro ora nell'altro, sempre sottovoce giungendo solo raramente ad affermarsi in fortissimo, animano quest'opera di rapidi guizzi, movimenti, occhiate e giochi di luce da sottobosco fatato. Pur nel costante tempo presto, Mendelssohn non si perita affatto di dosare il materiale musicale per assaporarlo lentamente come s'usa nei brani veloci e rapidi, ma gioca invece con la velocità, per far danzare in vertigine sognante i suoi giochi luminosi. L'accompagnamento distribuito e spezzato tra le due mani non è solo supporto all'inciso melodico ma lo avvolge definendo l'ambiente complessivo in cui quello si situa fino ad assumere anche valore tematico in senso lato.
Le fila della ricerca beethoveniana cominciano a riannodarsi con la meticolosa e profonda produzione di Johannes Brahms: da Beethoven egli riparte per una sottile e rigorosa analisi tematica. Accade nelle sonate prodotte di getto attorno all'anno 1853 ed accade nelle Variazioni che seguono la produzione pianistica. Brahms si cimenta con diversi impegnativi studi sulla variazione, su temi di Schumann, Paganini ed appunto nel 1862 sul tema di Händel, l'opera 24 eseguita a Vienna nel novembre dello stesso anno. Getta così un punto all'indietro con il tardo Beethoven da decenni guardato con reverenziale timore. Anche per lui la variazione diventa indagine sulle tecniche pianistiche e sulle forme
espressive della musica. La lezione di Beethoven si accompagna però al profondo studio di Bach che consente di introdurre modi espressivi arcaici filtrati, rivissuti e ripensati in termini profondamente moderni. In questo senso le variazioni lasciano spazio sia a canoni rigorosi e contrappuntisticamente complessi (n. 6, n. 16) che alla vera fuga della variazione finale rigorosamente costruita secondo una sintassi cembalo-organistica. Ma l'indagine sulle tecniche pianistiche diventa anche studio virtuosistico sulle potenzialità dello strumento: alcune variazioni diventano veri studi tecnici in cui Brahms amplia i limiti dell'estensione pianistica. Brahms travasa la propria attenzione verso la tecnica strumentale in brani che della variazione fanno un intenso evento virtuosistico, suscitando critiche e perplessità tra i fedeli seguaci del suo laboratorio di artigianato musicale. Già l'anno successivo infatti l'intento è addirittura proclamato a gran voce: le variazioni opera 35 elaborano un tema di Paganini- virtuoso per eccellenza - e sono pensate per Carl Tausig, il massimo virtuoso di pianoforte dell'epoca.
Paolo Russo
("Symphonia", N° 7 Anno II, giugno 1991)
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