A colloquio con Femando Germani. Roma, via Terme Deciane, 23 giugno 1995: Fernando Germani, 89 anni, ci attende nel suo appartamento, al primo piano di una splendida villa. Germani è un tipo decisamente schivo, e abbiamo faticato non poco per riuscire a incontrarlo. Il suo sguardo cade sul microfono del registratore: “Io, quando vedo questi apparecchi, divento subito antipatico...”, ma il Maestro si scioglie subito dopo...
Com’era la vita organistica in Italia quando lei ha iniziato la sua carriera? Chi erano i grandi organisti, all’epoca?
I due piè grandi organisti erano Marco Enrico Bossi e Ulisse Matthey; il resto era tutto - che posso dire - tutta mediocrità e basta.
E quali sono stati gli altri grandi organisti di quell’epoca, che ha avuto modo di conoscere?
Ho conosciuto Dupré, e Bonnet.
Che ricordi ha di Marcel Dupré?
Lo ricordo come grande improvvisatore più che organista; secondo il mio modo di vedere, di sentire, di apprezzare é stato un grandissimo improvvisatore ma non condividevo tanto le sue esecuzioni.
Per quale ragione?
Le porto un esempio; quando lei parla, divide le sillabe?
No.
Così succedeva invece con Marcel Dupré e altri, Karl Straube per esempio, perché suonavano tutto staccato dal principio sino alla fine. Ciò non ha senso, perché la musica come i1 discorso parlato ha le sue frasi, i suoi periodi, periodi di domanda, periodi di risposta, e quando è completo il pensiero musicale, lì c'è una cadenza, una conclusione, allora si può cambiare sonorità, cambiare tastiera. Ci sono moltissimi organisti che suonano tutto staccato, dal principio alla fine: è come sentire un balbuziente, non ha senso.
Quali sono stati i suoi maestri d’organo?
Ufficialmente l’unico è stato Raffaele Manari, un sacerdote: per il resto ho fatto da me.
Per lei è stata importante l’attività accademica, di insegnante?
Si, ho sempre avuto una grande passione per l'insegnamento, tant’è vero che dovevo insegnare tre volte alla settimana per un totale di dodici ore e invece cominciavo la mattina quando ancora era chiuso il conservatorio, mi facevo aprire dal portiere, e gli allievi mi vedevano lì e si rimaneva l’intero giorno senza mangiare. Si rimaneva fino a che il portiere ci cacciava via perché doveva chiudere il conservatorio la sera; ho avuto una quantità di allievi che ora stanno in tutte le parti del mondo, fino in Giappone. Insieme al conte Chigi Saracini, fondammo poi l’Accademia Chigiana: io mi occupavo semplicemente dell'organizzazione della classe d’organo e lui pensava a tutto il resto. Questo andò avanti fino alla sua morte; quando il Conte morì, finì tutto.
Ha insegnato anche negli Stati Uniti?
Sì, ho insegnato al Curtis Institute di Philadelphia e poi anche a Chicago. Negli Stati Uniti ci sono stato parecchie volte perché ho eseguito - oltre a un repertorio non comune, con le opere più difficili di Max Reger, lì sconosciuto - tutte le opere di Bach. Esse mi hanno fruttato dei riconoscimenti ufficiali, sia dal presidente Nixon che da Kennedy.
Ci parli della sua prima esperienza americana.
La storia è lunga... A palazzo Cenci a Roma si era ritirato un ricco americano che una volta alla settimana organizzava un concerto in casa sua; come pianista per molto tempo ci fu Carlo Zecchi, mio amico e compagno di scuola, che poi aveva formato un quartetto d'archi; quando Carlo Zecchi andò in Germania per studiare con Busoní, mi pregò di sostituirlo. Quando il mecenate scoprì che in realtà ero organista, fissammo un appuntamento all'Istituto Pontificio di Musica Sacra e mi fece suonare per diverse ore, tutto a memoria, e mi disse di essere molto amico di Ronald Wanamaker, il celebre miliardario proprietario dei Grandi Magazzini dove si esibivano grandi orchestre a scopo pubblicitario. Egli scrisse a Wanamaker, che mandò a Roma un suo inviato speciale; suonai per lui tutto il repertorio per due giorni, mattina e pomeriggio. L'inviato fece poi tappa a Parigi, dove parlò di me al compositore Leo Sowerby, che poi scrisse dedicandomelo il pezzo Pageant (lui l'aveva composto espressamente molto difficile, e invece io riuscii ad aggiungervi altre difficoltà!). Ma la cosa più strana fu che Sowerby mi mandò il pezzo proprio alla vigilia della mia partenza per gli Stati Uniti: dovetti memorizzarlo sul piroscafo, e tutta la parte di pedale doppio, triplo e quadruplo me la sono imparata stando seduto... “in trono", nel bagno della mia cabina!
Rimase molto negli States?
Mi avevano organizzato due concerti, uno a New York e l'altro a Philadelphia, ma Mr.Wanamaker fece una pubblicità tale che invece di due ne feci venticinque.
Ha avuto anche occasione di suonare con Stokowsky, se non erro?
Sì, ho suonato con lui una volta a Philadelphia.
E il prima invito in Inghilterra?
Fu organizzato dall'organaro Henry Willis, che scrisse al mio impresario dicendo che lui aveva preparato un concerto per me a Liverpool; lo si era organizzato in modo che il piroscafo arrivava alla mattina e il concerto era alla sera. Io mandai il programma, ma appena arrivato a Liverpool trovai che il programma non era arrivato (o non era mai stato spedito!), e Willis dovette formare lui un programma, in base a notizie sul mio conto. Io ero partito senza spartiti, ma tutto andò bene, e immediatamente, dopo il concerto a Liverpool mi organizzarono un concerto a Manchester e altre città e l'ultimo a Londra all'Alexander Palace, il tutto senza una sola nota scritta!
Come mai il suo grande interesse per le opere di Max Reger?
Mi sono capitate per le mani prima di tutto le biografie di Reger; poi ho avuto occasione di conoscere persone che gli erano amiche, e da quanto mi hanno raccontato egli amava bere molto. Ciò si è anche riflettuto nelle sue composizioni. Quando ho saputo di questa sua passione per la birra o il vino mi sono potuto regolare per l'interpretazione delle sue opere: una persona che non conosce la vita e le abitudini di Reger ed esegue esattamente, come sono stampati, i segni dinamici, l'esecuzione diventa una corbelleria. Io capivo la costruzione della frase, del periodo, e non c'era bisogno di fare cambiamenti, mentre Reger semplicemente per indicare un piccolo crescendo o diminuendo espressivo, non dinamico, da un pppp andava a finire in un ffff. Questa è stata una ragione dell'impopolarità della sua musica. Io ho dimenticato e ignorato completamente i segni dinamici, ho analizzato le sue opere in base alla forma musicale, e ho potuto ricostruire le frasi, i periodi, i periodi di domanda, i periodi di risposta. Molte persone del pubblico, quando io ho eseguito alcune di queste composizioni, mi hanno detto: “Oggi ci è parso addirittura di vederle queste composizioni, tanto erano chiare". Io mi sono dedicato alle opere più difficili di Reger, tra cui le famose Variazioni Op.73, uno dei pezzi più difficili, oltre alle sonate e altri brani. Ogni volta essi sono piaciuti; una volta a Roma tenni un concerto dedicato esclusivamente alle opere più difficili di Max Reger, e i miei colleghi, compreso il mio primo insegnante, mi domandarono se ero diventato pazzo per eseguire un concerto di quel genere. Finita l'esecuzione, come 1'alta marea tutto il pubblico si alzò in piedi ad applaudire e dovetti eseguire cinque pezzi fuori programma.
In un certo senso lei ha riscoperto l'opera di Max Reger?
L'ho ricreato in quel modo, ma ripeto che bisognava prima di tutto conoscere la personalità. Quando feci un concerto a Lipsia, in San Tommaso, intervenne un suo amico intimo, il celebre Karl Straube, che aveva riveduto tante sue opere. Lui assisteva da una galleria da dove poteva vedere perfettamente tutta la cantoria; noti bene che io ho sempre suonato a memoria e lì in cantoria c'ero io solo; terminato il concerto lui mi mandò a chiamare e mi chiese: “Quante persone stavano ad aiutarla?", perché c'era l'abitudine in Germania, anche per cambiare i registri, di avere degli aiutanti. “Nessuno”, risposi io, ma lui non credette, e dovetti invitarlo a sedere accanto a me durante il concerto successivo.
E il grande repertorio francese tra Otto e Novecento?
Non l'ho certo trascurato: ho eseguito tutte le opere di César Franck... e poi composizioni di Messiaen, di Dupré, di Bonnet...
Si è mai dedicato all'improvvisazione?
No, salvo in chiesa.
Come mai?
Perché lo studio dell'organo mi pigliava tutto il tempo possibile e immaginabile, e quindi non avevo tempo di dedicarmi all'improvvisazione.
Lei è stato per anni organista titolare a San Pietro in Vaticano: come ha vissuto questo servizio, di organista al servizio della chiesa?
Preferirei cambiare discorso.
Per quale motivo?
In religione è proibito dire le bugie e io non le so dire; è vero, certe volte può essere scottante più del fuoco, e allora cambiamo discorso, perché dovrei dire una quantità di cose non troppo piacevoli. Noti, tra parentesi, che io non ho mai avuto desiderio di andare a suonare per le chiese, ma la nomina di organista di San Pietro me la sono venuti ad offrire qui, a casa, tanto è vero che io risposi “Ci penserò, perché ho un'attività di concertista”.
Il suo nome è indissociabile da quelli di Reger e di Bach: di quest'ultimo autore sono rimaste famose le sue esecuzione dell'opera omnia...
La prima occasione di eseguire l'opera integrale per organo di Bach fu dopo la fine della seconda guerra mondiale, qui a Roma, a Sant'Ignazio. Andò talmente bene che alla fine dell'ultimo concerto mi domandarono di ripetere il ciclo l'anno successivo, infatti il pubblico, da poche persone all'inizio, si era affollato in un modo incredibile. Ma non andò sempre tutto liscio: in occasione del primo concerto di un ciclo, un sacerdote inviato da un cardinale mi ingiunse di sospendere la serie di concerti. Alcuni studenti, saputolo, organizzarono delle dimostrazioni davanti alla chiesa di Sant'Ignazio! Durante la prima esecuzione io sentii un gran rumore, uno scalpiccio di passi sul pavimento della chiesa di Sant'Ignazio, mi affacciai dalla cantoria e vidi che erano entrati molti prigionieri tedeschi: fu un'iniziativa del comandante americano, che aveva invitato i prigionieri tedeschi, “trattandosi del più grande compositore tedesco". Lo stesso comandante mi aiutò e provvide a far arrivare alla chiesa, nel momento dei concerti, la corrente elettrica al giusto voltaggio. Solo a Roma avrò suonato l'intero ciclo bachiano non meno di 14 volte, alternando Sant'Ignazio all'Ara Coeli, e il pubblico era sempre più numeroso. Il pubblico piano piano si è formato... noti tra parentesi, che tutti questi concerti a Roma, organizzati dall'Accademia di Santa Cecilia, li ho fatti gratis et amore Dei: io non ho ricevuto un centesimo, però ho formato un pubblico, perché quando c'era un'esecuzione con musica di Bach la chiesa era piena.
E lo studio di Bach è poi confluito in una pubblicazione, della Camerata Musicale Barese...
Sì, per far capire le composizioni di Bach ho analizzato composizione per composizione, spiegandone il significato. Per i corali, per esempio, ho pubblicato le parole in tedesco e in italiano. Questo ha contribuito a far capire le opere di Bach: perché tutti quanti si limitavano in un concerto a fare la solita Toccata e fuga in re minore o qualche altro pezzo popolare, pur di ottenere l'applauso; io non l'ho fatto mai con lo scopo di ottenere l'applauso, mai.
Sbaglio o all'estero è stato ancora più apprezzata che in Italia?
Beh, in America facevano la pubblicità... all'americana, ma non creda che anche in America siano state tutte rose, ci sono state anche le spine, perché vi erano degli organisti talmente invidiosi che dopo un mio concerto scrissero un articolo su uno dei principali giornali di New York dicendo che mi dovevano buttare giù dalla cima di un grattacielo!
E per quale motivo?
Perché davo fastidio, perché non erano capaci di fare ciò che eseguivo io...
Giuseppe Clericetti
("Symphonia" Nr. 53 Anno VI, Agosto 1995)
Nessun commento:
Posta un commento