Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, gennaio 10, 2024

Anton Webern: pagine di diario di Luigi Dallapiccola

Firenze, 22 ottobre 1945.
Da Vienna, in data 8 corr., un amico mi scrive: «...purtroppo debbo darLe anche una notizia estremamente triste. Webern è morto in un tragico incidente, proprio ora che la sua opera avrebbe finalmente trovato da noi una affermazione decisiva...››.

Praga, 5 settembre 1935.
Questa sera Heinrich Jalowetz ha presentato il Concerto op. 24 di Anton Webern, un'opera di brevità inverosimile (sei minuti di musica) e di concentrazione assolutamente singolare. Ogni elemento decorativo vi è eliminato. Nove strumenti partecipano all'esecuzione: tre legni, tre ottoni e due archi con pianoforte.
Non sono riuscito a farmi un'idea esatta del lavoro, troppo difficile per me; che - tuttavia  -  rappresenti un mondo mi sembra fuori discussione. Ci si trova di fronte a un uomo che  esprime il massimo di idee col minimo immaginabile di parole. Pur non avendo bene compreso l'opera mi è sembrato di rilevarvi una unità estetica e stilistica quale non avrei saputo desiderare maggiore.
Varia gente sorrideva, in sala, durante l'esecuzione;  cordialmente ilare sembrava anche la nostra delegazione. («Oh gaiezza latina, tu non sei ancor morta!››, si legge in Chantecler. Ma di tutte le cose si può ridere).
Non ho ascoltato tutto il programma di questa sera. Webern mi costringe a meditare.

Firenze, 4 aprile 1943.
AUDIATUR ET ALTERA PARS. Il Concerto op. 24 di Webern mi aveva colpito per quella caratteristica che non seppi definire che col termine concentrazione. Leggo sul Dizionario della Musica di Della Corte e Pannain: «...è  la completa soluzione e la distruzione degli elementi espressivi della forma. I più schietti esempi di questo tipo di musica, incapace d'ogni vitalità ed avvenire, ci vengono da Anton Webern››. A questo proposito non posso rinunciare ad annotare la definizione di Schoenberg, circa la concisione delle opere del suo primo discepolo: Un romanzo in un sospiro.

Londra, 17 giugno 1938.
La musica di Webern è troppo nuova per rivelare alla lettura tutte le sue proprietà timbriche. E il desiderio, appunto, di conoscere più da vicino l'opera di un Maestro a me troppo poco noto è stata una delle ragioni determinanti del mio viaggio. Per poter ascoltare Das Augenlìcht valeva bene la pena di traversare la verde Francia e di passare la Manica, in mezzo alla ridda dei gabbiani.
Das Augenlicht («La luce degli occhi››) è una breve opera per voci miste e strumenti: è stata presentata dai B.B.C. Singers, il complesso corale più portentoso che mi sia avvenuto di udire, e dall'orchestra della B.B.C., diretta con finezza demoniaca da Hermann Scherchen.
Anton Webern è un fiore isolato che non somiglia a nessun altro. È diversissimo da Arnold Schoenberg, suo maestro; è diversissimo da Alban Berg, che gli fu amico fraterno. Basterebbe riflettere su questa diversità per concludere che il sistema dodecafonico non è poi quel vicolo cieco che tanti pretendono; non quel fattore malefico che dovrebbe ridurre la musica di tutti i paesi a un minimo comune denominatore, come è stato affermato un po' troppo in fretta e ripetuto senza un minimo di controllo; bensì un linguaggio che racchiude in sé possibilità di svariatissime differenziazioni, i cui risultati non saremo forse noi a vedere.
Ciò che colpisce sopra tutto in Das Augenlicht a una prima e, purtroppo, sola audizione è la qualità del suono.
La scarna partitura che, alla lettura, sembra presentare mille passi problematici basterebbe da sola a dimostrare l'infondatezza di tante regole che i più svariati Trattati di Strumentazione si sono trasmesse, quasi per ereditarietà. Alludo, in primo luogo, al terrore quasi superstizioso che paralizza i trattatisti di fronte al pericolo di quei cedimenti della partitura che, in gergo, si chiamano buchi. I teorici, anziché consigliare lo studio dell'ultimo Bach, la riflessione umile e attenta sui Canones diversi dell'Offerta Musicale e su l'Arte della Fuga, anziché parlare di contrappunto e di polifonia, per difendere il giovane strumentatore dal pericolo delle sabbie mobili dell'orchestra, consigliano le parti di ripieno; quelle parti, esattamente, che hanno inzeppato mille partiture nella seconda metà dell'ottocento e troppe nel nostro secolo.
Webern ci dimostra come, anche qualora non lavori in senso strettamente contrappuntistico, possano bastare due note della Celesta o un lieve tocco del Glockenspiel o un tremolo appena udibile del Mandolino per unire fra di loro abissi che a tutta prima erano sembrati separati da distanze incolmabili.
L'organico dell'orchestra è limitato all'essenziale. E ciò non certo per smania di originalità né per desiderio di allontanarsi il più possibile dal suono dell'orchestra wagneriana o straussiana. Webern ha sondato tutte le possibilità di tutti gli strumenti ed è in grado di scrivere per quei complessi che a lui, in un determinato momento sembrano indispensabili.
Das Augenlicht, all'audizione, si rivela piena di poetica armoniosità: voci e strumenti, spesso fra di loro distanziatissimi, oppongono i loro piani sonori. La partitura sembra arricchirsi di quelle misteriose vibrazioni che le conferirebbe un'esecuzione sotto una campana di vetro.  La costruzione musicale ha un suo ritmo interno, che nulla ha in comune col ritmo meccanico. Meriterebbe una trattazione a parte certa raffinatezza di scrittura; l'osservare, ad esempio, come Webern eviti il più possibile quel brusco richiamo alla realtà che è rappresentato dall'accento sul tempo forte della battuta e che qui, inevitabilmente, spezzerebbe l'atmosfera di sogno che permea di sé la poeticissima composizione. Il suono, per il momento, costituisce la massima fonte che mi ha dato questo lavoro. Un suono che, da solo, basterebbe a farmi considerare Das Augenlicht una delle opere fondamentali del nostro tempo.
E in modo particolare si dovrebbe pur dire delle allusioni musicali che sembrano scaturire, come :suoni armonici lontanissimi, dalla serie dodecafonica e dai suoi sviluppi.

Firenze, 2 gennaio 1942.
«...anche nella concezione della vita e nell'uso dei  valori cosiddetti intellettuali come la forma, lo stile, etc., lo Strauss è, soprattutto, un "barocco umorista" e caricaturista. Il carattere in lui, come in certi pittori spagnoli modernissimi, confina con la caricatura. Nel passato, sotto questo aspetto, non gli vedo veramente fraterno, che il Rabelais››. (GIANNOTTO BASTIANELLI, La crisi musicale europea, Pistoia, 1912, pag. 136).
Mi rendo conto di quanto sia difficile stabilire rapporti (abbiano questi valore critico o anche solo valore indicativo) fra musicisti e poeti, fra pittori e musicisti.
Il binomio Rabelais-Strauss e oggi per me inconcepibile (e debbo fare uno sforzo per giustificarlo anche se tengo conto dell'epoca in cui il Bastianelli lo intuì, lo espresse e tanto volle insistervi) allo stesso modo come sarebbe inconcepibile stabilire un binomio tra Francesco I, il fratello della Marguerite des marguerites de France, la cui epoca Rabelais rappresenta, e Guglielmo II, detto il Kaiser, che Richard Strauss interpreta.
Pure, come ridare a parole un'idea, sia pure pallida e approssimativa, di quello che possono essere le allusioni musicali se non ricorrendo a esempi letterari?
In James Joyce trovo il passo seguente (Ulysses, pagg. 524-525):
Stephen: Hm. (He strikes a match and proceeds to light the cigarette with enigmatic melancholy).
Lynch: (Watching him). You Would have a betterchance of lighting it if you held the match nearer.
Stephen: (Brings the match nearer his eye). Lynx eye.
Oppure quest'altro:
Stephen:  Married.
Zoe: It was a commercial traveller married her and took her away with him.
Florry: (Nods). Mr. Lambe from London.
Stephen: Lamb of London, Who takest away the sinsof our world.
E sembra, subito dopo, che la sgomentevole apparizione di Father Dolan sia dovuta a una concentratissima emanazione di suoni armonici.
Che si debba a James Joyce di avere introdotto gli armonici superiori nella letteratura?

Vienna, 9 marzo 1942.
Una sosta di dodici o di quattordici ore in questa città morta è inevitabile a chi ritorni in Italia dall'Ungheria. (Due controlli di polizia sono obbligatori). Tuttavia sono lieto perché questa sera, in casa Schlee, ho avuto la fortuna di stringere la mano ad Anton Webern. Un mistico, un piccolo uomo che parla con qualche inflessione dialettale austriaca, dolce ma capace di uno scoppio d'ira, cordiale al punto di trattarmi come un suo pari. (Le nostre comuni responsabilità, dice).
Senza timore, senza reticenze ormai si parla della guerra. Questo è fra tutti gli argomenti il più urgente, in ogni paese. È facile intenderci. Da quale parte della barricata ci si trovi sta scritto sulla nostra fronte. Con costernazione si parla della caduta di Singapore e della grandezzata compiuta dalla Scharnhorst, dalla Gneisenau e dalla Prinz Eugen qualche settimana prima. Ma si parla anche di musica. Non essendo stato presente Webern all'immenso successo londinese di Das Augenlicht gli dico della grande impressione allora provata. E Webern mi chiede subito: «Un'impressione anche sonora?››. (Il suono. Avevo capito giusto). Discutendo problemi di sonorità strumentale il finissimo ricercatore (che la storia non potrà ignorare per il suo enorme contributo alla formazione del nuovo linguaggio) afferma: «Un accordo di tre trombe o di quattro corni è per me ormai inimmaginabile››.
Viene fatto, incidentalmente, il nome di Kurt Weill. E Webern, all'improvviso, esplode. Punta l'indice verso di me (ma non ero stato io a pronunciare il nome di un compositore a lui non gradito!) e mi pone una domanda molto diretta. «Che cosa trova Lei in tale musicista della nostra grande tradizione centroeuropea, di quella tradizione che comprende i nomi (e qui comincia a enumerarli sulle dita) di Schubert, Brahms, Wolf, Mahler, Schoenberg, Berg e il mio?››.
Sono imbarazzato. Non dico che una risposta non fosse assolutamente possibile; ma ciò che mi confonde e che Webern abbia usato il termine «tradizione››, termine che - conoscendo le Variazioni, Op. 27, la cantata Das Augenlicht e, attraverso sia pure una sola audizione, il Concerto, Op. 24 - avrei supposto eliminato dal vocabolario weberniano. Non solo. Ma che si considerasse figlio della tradizione; che credesse, cioè, alla continuità del linguaggio... ). E che, infine, dimostrasse che ciò che lo allontanava da Kurt Weill non fossero questioni estetiche o di gusto, ma soltanto il fatto che Weill avesse rifiutata la tradizione centroeuropea.
Webern mi ha fatto grande impressione, anche come persona umana. E ripenso a quanto Theodor Wiesengrund Adorno ebbe a scrivere di lui anni or sono: «L'assalto che la costruttività di Schoenberg mosse contro le porte murate dell'oggettivismo musicale non è più (nelle liriche Op. 14 e Op. 15) che una vibrazione che giunge a noi da estreme lontananze. È l'anima solitaria che trema dinanzi alle porte murate e si abbarbica alla fede: null'altro le è rimasto››.

Fiesole, 3 dicembre 1943.
Oggi Anton Webern compie i sessant'anni. Un'anima solitaria che si abbarbica alla fede.... A Firenze, come ormai in tutte le città italiane, la persecuzione assume un ritmo preoccupante. Mi sento anch'io, più che mai oggi, un'anima solitaria....
Dicevo di dedicare al Maestro i Sex Carmina Alcaei, che gli presenterò a guerra finita, con la trepidazione che ben conosce chi sottopone un'opera sua ai giudizio di chi gli è di tanto superiore.

Firenze, 22 ottobre 1945.
I Sex Carmina Alcaei saranno dedicati, con umiltà e devozione, alla di Lui memoria.
Luigi Dallapiccola
("Disclub", anno I n. 1 ottobre 1963)

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