Nella seconda metà dell'Ottocento si afferma il concertismo quale lo conosciamo ancor oggi, e nella seconda metà dell'Ottocento viene creata in Russia una civiltà musicale che, pur nella sua specificità, si incanala nelle tradizioni centro-europee. I russi ospitano molti concertisti - a cominciare da Liszt e da Henselt, che viene "catturato" a suon di rubli d'oro e che rimarrà a San Pietroburgo per tutta la vita - e mandano in giro nel mondo i loro concertisti. Fino alla grande Guerra, così, San Pietroburgo e Mosca sono due centri nei quali la vita musicale rispecchia ciò che accade a Berlino o a Vienna o a Londra o a Parigi. Poi viene la guerra, poi la Rivoluzione. E con la Rivoluzione cambia tutto.
Chi ha un nome internazionale ed è in Russia, dalla Russia, se può, scappa subito. Chi ha un nome internazionale e non è in Russia, in Russia non rientra più. Una volta battuti i "bianchi", però, i Bolscevichi invitano artisti stranieri e lasciano andare all'estero i loro artisti. Rachmaninov era fuggito passando per la Finlandia, Prokofiev va in America - via Vladivostok - con il passaporto in regola, con il passaporto in regola vanno a Berlino Horowitz e Milstein. Ma siccome né Prokofiev, né Horowitz, né Milstein rientrano i visti per l'estero vengono annullati e chi vuole ancora espatriare, come Sapelnikov, deve scappare sfidando le guardie di frontiera.
I bolscevichi, in realtà, chiudono la stalla quando i buoi più pregiati ne sono già usciti. Ma chi non esce più sono i pregiati vitelli che diventeranno pregiatissimi buoi. Gli stranieri che vogliono andarci sono bene accolti in Russia anche durante gli anni Trenta, e Prokofiev, che ci torna per fare il suo mestiere di concertista, decide addirittura di fermarvisi. Però i giovani escono solo più, dopo esser stati attentamente selezionati, per partecipare ai concorsi.
Il Concorso Internazionale, come meccanismo di individuazione dei nuovi talenti, è un'invenzione degli anni Trenta. Ai sovietici non interessa però immettere i loro giovani sul mercato internazionale: gli interessa di affermare, in una gara, la superiorità della loro scuola. I concorsi vengono dunque affrontati dai sovietici come prova di campionato mondiale. Un russo, Lev Oborin, vince già nel 1927 la prima edizione del Concorso Chopin di Varsavia, in russo - ahi! - espatriato vince nel 1931 la seconda edizione. I russi non vanno tanto bene con il primo Concorso di Vienna, 1934, ma nel secondo, 1936, piazzano Yakov Flier al primo posto ed Emil Gilels al secondo; Gilels vincerà nel 1938 la prima edizione del Concorso Ysaye, poi Regina Elisabetta del Belgio, che si svolge a Bruxelles.
Questo per il pianoforte. Ma non va peggio per il violino. Nel 1935 David Oistrach arriva secondo al Concorso Wieniawski di Varsavia: è battuto da Ginette Neveu, un genio, uno dei più grandi talenti violinistici che il nostro secolo abbia conosciuto. Nel 1937 i sovietici mandano a Bruxelles (il Concorso
Ysaye Regina Elisabetta alterna il pianoforte, il violino, la composizione), mandano a Bruxelles uno squadrone che sbaraglia tutti: i russi trionfano, solo Ricardo Odnoposoff, russo espatriato, riesce a conquistare il secondo posto, dietro a Oistrach, vincitore senza discussioni.
La tattica dell'Unione Sovietica era di vincere i concorsi. Se fosse solo una tattica o non anche una strategia non sappiamo. Dopo le vittorie le autorità sovietiche avrebbero mandato in tournée i poulains, magari per raccogliere un po' di valuta pregiata? Non possiamo saperlo, dico, perché con la guerra, nel '39, le frontiere si chiusero più di quanto già non lo fossero. E nel momento in cui gli Stati Uniti si allearono con l'Unione Sovietica le sale di concerto americane aprirono le loro porte alle musiche degli Shostakovich e dei Katchaturian e dei Kabalevski, ma i concertisti sovietici non attraversaronoil Pacifico.
Dopo la guerra venne, e per molti artisti fu peggio, la Guerra Fredda. Arturo Benedetti Michelangeli, che aveva preso parte al Concorso di Bruxelles, sapeva chi fosse Gilels, Giannino Carpi, che aveva preso parte al Concorso di Bruxelles, sapeva chi fosse Oistrach. Ma per chi non li aveva sentiti nel '38 e nel '39 Gilels e Oistrach erano solo nomi che venivano citati con ammirazione, e Richter e Kogan erano personaggi misteriosi. Nei programmi di concerto si leggeva che il Concerto per violino di Katchaturian, assai eseguito in occidente, aveva a Mosca un illustre interprete in Leonid Kogan, nei programmi di concerto si leggeva che la Sonata n.7 di Prokofiev, divenuta in breve molto popolare, era stata eseguita, prima che da Horowitz in America, da Sviatoslav Richter a Mosca. Si leggeva anche che la Sonata n.8 di Prokofiev era dedicata a Gilels, e che la Sonata per violino in re maggiore di Prokofiev, portata al successo da Isaac Stern, non era una sonata per violino ma una sonata per flauto rifatta per violino su richiesta di Oistrach. Si leggeva, si leggeva... e non si sentiva niente, nemmeno i dischi, perché i Melodia non erano distribuiti in occidente.
Ma dopo la Guerra Fredda arrivò il Disgelo. Il disgelo mette in moto i fiumi e i fiumi trascinano a valle molti detriti e qualche albero rigoglioso. Il Disgelo propiziato dal premier Macmillan, che mise il colbacco in testa e sbarcò sorridente a Mosca, portò a noi Oistrach e Gilels. Cerano molti grandi pianisti negli anni Cinquanta (più, lo dico sottovoce, di adesso). C'erano molti grandi violinisti negli anni Cinquanta (più, idem, di adesso). Negli Stati Uniti il re era Heifetz, che non suonava in Europa. In Europa il re era Milstein, che andava avanti e indietro da una costa all'altra dell'Atlantico. Ginette Neveu, che sarebbe stata la regina, era perita in un disastro aereo. Le principesse erano Johanna Martzy, Gioconda de Vito, Ida Haendel. C'erano dei principi un po' fuori moda ma non ancora del tutto, come Elman, Thibaud, Zimbalist, c'erano certi vecchi rispettatissimi consiglieri di corte come Enesco e Busch, c'era un'eminenza grigia come Szigeti, c'era un re che aveva perduto la corona come Menuhin, c'erano tre fenomeni che crescevano impetuosamente, Francescatti, Grumiaux e Stern, e c'erano Zaturecki e Spivakovsky e Totenberg, che non erano proprio altezze imperiali ma che la loro figura a palazzo la facevano.
Oistrach e Gilels vennero e... si verificò un fatto curioso. Ricordo la critica dell'Unità, quando Oistrach e Gilels suonarono al Maggio Musicale Fiorentino: osannante. Ricordo la critica di altri giornali: critica. Bravi sì, i due, ma... un po' antiquari, un po' démodés. C'entrava la politica e centravano gli affetti profondi. Ciò che non si diceva nei giornali ma che si diceva nelle conversazioni suonava così: Gilels non scalzerà Benedetti Michelangeli, Oistrach non scalzerà Milstein. Anche quando arrivò Richter accadde la stessa cosa: bravo sì, ma... O, come sentii dire in un salotto milanese, dopo il Secondo di Brahms alla Scala con Celibidache: "Sì, ma... vuoi mettere il nostro Ciro?" Oistrach non scalzò Milstein, e Gilels non scalzò Benedetti Michelangeli. Però, un paio d'anni più tardi, e anche prima, nessuno li avrebbe più barattati con niente.
Io ascoltati parecchie volte Oistrach alla radio, prima che in sala. E mise un po' in crisi il mio amore per Stern, per il quale stravedevo (non stravedevo per Milstein). Stern era un artista, e Oistrach era un artista. Ma Stern certe difficoltà le superava di slancio, Oistrach le dominava. Già avevo avuto questa impressione ascoltando Oistrach in disco. Nel 1955, mi pare, avevo trovato in Svizzera il Concerto di Beethoven eseguito da Oistrach sotto la direzione di Sixten Ehrling.
Lo avevo fatto ascoltare ad un amico violinista, che aveva detto anche lui "Bravo, si, maper me il tetracordo è tutto sbagliato". A me l'intonazione di Oistrach non dava fastidio né nel Concerto di Beethoven né in ciò che da lui ascoltai alla radio. Oistrach mi ricordava invece qualcuno, o qualcosa, ma non riuscivo a capire che cosa. Un giorno lo capii.
Da bambino la mia passione era il tennis. Avevo visto giocare in Coppa Davis, avrò avuto sette anni, il barone von Cramm, e mi era bastato per decidere che il tennis era la mia massima aspirazione. Durante la guerra scoprii nella soffitta di una nonna dieci o più amate dell'Illustmzione Italiana: vi lessi tutte le cronache del tennis e vidi nella mia immaginazione le partite di Borotra, di Lacoste, di Cochet, di Tilden. Di TILDEN!
Ecco, Oistrach suonava il violino come io immaginavo che Tilden rnaneggiasse la racchetta.
Quando alla fine vidi Oistrach in sala di concerto conclusi che era proprio il Tilden del violino. Salvo la figura. Oistrach era grosso. Non avevo mai visto un grande violinista così grosso, c'era qualcosa di sproporzionato fra il suo busto e il suo violino, sarebbe stato più giusto a suonare la viola. Però quel violino, che sembrava piccolo, lui lo trattava proprio come si tratta un bambino, non lo scuoteva mai, lo carezzava, e il violino suonava da solo.
La tecnica di Oistrach non era appariscente, ma per chi capiva di tecnica era addirittura agghiacciante. Un ex~violinista mi raccontò di averlo accompagnato, quando andò per la prima volta a Genova, a vedere il violino di Paganini, il Cannone. Oistrach guardava il violino nella teca, affascinato. Arrivò l'inserviente con la chiave, aprì la teca. Oistrach prese il violino nelle mani, lo guardò e lo rigirò per parecchi minuti, borbottando parole incomprensibili. Poi lo impugnò dolcemente, prese l'archetto... Dal Cannone uscì una cannonata di scala di sol maggiore di tre ottave, in su e in giù, legata, potentissima, velocissima, intonatissima. Chi mi raccontò l'episodio disse di aver fatto un passo indietro, atterrito.
Chi non sa cosa sia il violino non potrà forse capire. La lunghezza della tastiera, toccata dalle dita della mano sinistra, varia leggermente da un violino all'altro. Bastano pochi millimetri di diversità, e tutti i movimenti, tutte le distanze devono essere riadattate. Suonare alla perfezione, al primo impatto, su un violino che non si conosce è un'impresa riservata a pochissimi: non so in verità a chi, oltre a Oistrach. Altro che tetracordo!
La tecnica era però l'ultima cosa che si notava in Oistrach. Anzi, non si notava affatto: il violino suonava da solo. Si restava invece soggiogati dall'eloquio, dall'oratoria forte, nobile, persuasiva, essenziale. Era una figura paterna, credo che i russi potessero ritrovare in lui uno zar antico che capiva il popolo e ne era amato.
Quando lo vidi entrare in scena notai prima di tutto la figura. Lo avevo visto in fotografia, non avevo immaginato che fosse così grosso. Poi notai il frak. Non credo che avesse portato il frak nell'Unione Sovietica; comunque, il frak che indossava era nuovo, di gran taglio, ben stirato. Non aveva la mentoniera...
Questo non lo notai perché allora ben pochi violinisti adottavano la mentoniera, la mentoniera Menhuín. "A che serve la mentoniera?" mi disse una volta un vecchio professore di conservatorio. "Serve a far guadagnare soldi a Menuhin, e basta. Un buon violinista userà un semplice fazzoletto, e nessuno riuscirà a strappargli lo strumento di sotto la mandibola". "Venga", mi disse (eravamo in corridoio). Andai nella sua classe, tolse il violino dalla custodia, cavò di tasca il fazzoletto e lo infilò nel colletto della camicia, piazzo il violino. "Tiri", mi ordinò. "Ma veramente..." "Tiri!" Tirai. "Tiri più forte, perdinci". Tirai più forte: il violino non cedette di un millimetro. "Vede?", concluse lui trionfante. "Lo so io, a che serve la mentoniera".
Oistrach non aveva la mentoniera, e credo che nemmeno due uomini grossi come lui sarebbero riusciti a strappargli il violino da sotto la mandibola. Aveva, si capisce, il fazzoletto. Lo cavò di tasca, lo infilo sotto il mento. Era grandissimo, a quadri bianchi e rossi. Fu come entrare magicamente nel Concerto campestre di Giorgione (o del giovane Tiziano che sia): noi eravamo lì seduti ed un grosso contadino ci offriva su una tovaglia contadina il cibo più sano e più appetitoso che la terra sappia produrre. Il cielo dietro di noi, era scuro, ma nulla poteva minacciarci finché la manna sgorgava dal piccolo violino.
Piero Rattalino
("Symphonia", N° 54 Anno VI, Settembre 1995)
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