Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

lunedì, novembre 07, 2005

Verdi: Il Requiem di Delman

Sotto le stelle appannate dalla calura di una notte di fine luglio. Sotto le stelle con addosso tanta voglia di vacanza. Sotto le stelle un'altra volta nella cupola rovesciata dell'Arena di Verona. Una notte calda e senza luna, ma dolce. Una notte tipicamente italiana per ascoltare una musica nata nella Padania, a contatto col grande padre Po. Un capolavoro scritto da un contadino terragno e chiuso, severo e asciutto, forse anche gretto umanamente, ma immensamente grande come artista. Un contadino che si esprime con un canto vasto, profondo, umanissimo, ineguagliabile. Il canto di Giuseppe Verdi, il canto della Messa di requiem, uno dei suoi più alti, sicuri capolavori.
Inutile, penso, rifare la storia di questa partitura. Basterà ricordare che a Verdi l'idea di comporre una Messa di requiem venne la prima volta in occasione della morte di Rossini. Non se ne fece nulla, Verdi compose solo un brano, il "Lacrymosa".
Ma quando Alessandro Manzoni, che Verdi venerava, venne a mancare, il Maestro non ebbe più esitazioni. La morte del grande romanziere l'aveva commosso, colpito, addolorato profondamente. E non poteva fare altro che esprimere in musica questi suoi sentimenti.
Non occorre ora chiedersi se questa messa risponda ai canoni della musica sacra, se sia più musica da chiesa o più melodramma. Come si sa, la suddivisione per generi in estetica non vuol dire nulla.
Quello che conta è sapere se questa musica tocchi o meno la poesia.
E la risposta è, da sempre, affermativa. Del resto è stato Giovanni Brahms a dire che "solo un genio poteva scrivere un simile capolavoro".
Verdi di fronte al fenomeno e al mistero della morte reagisce con terrore, con sgomento, con stupefatta lacerazione. Il grido del "Dies Irae", lo squarcio abissale del "Rex tremendae majestatis", il pianto senza speranza del "Lacrymosa" vengono appena attenuati dalla serenità angelica dell'"Ostia et preces", dalla ferma bellezza dell'"Agnus Dei". Il fatto è che per Verdi la morte vuol dire assoluta, irreparabile solitudine, senso dell'ignoto, smarrimento, mistero. E lui la sente e la racconta, la morte, come, nelle lunghe notti invernali, nelle stalle o nelle osterie, i cantastorie narravano fole e avventure ricche di cupe zone d'ombra e d'angoscia, di orrore e tremore. Proprio come Fernando, nel Trovatore, racconta ai soldati la storia della zingara. Questo e non altro è il substrato culturale e umano che sta alla base di questa bellissima Messa di requiem, che continuerà a stupire per la sua perfezione e per la sua umanità dolente e vinta. Verdi non sa pregare confidando nella fede. Verdi prega perché ogni altro motivo di speranza è fallito. Prega perchè non può ricorrere a nessun altro espediente.
E in questa preghiera si smemora e si abbandona.
Forse anche per questo la Messa di requiem, a parte le leggi dell'acustica, ben si addice a una esecuzione all'aperto, sotto la volta del cielo, con le stelle che brillano pallide e lontane. L'esecuzione ascoltata l'altra sera all'Arena è stata più che buona. Il merito principale deve essere ascritto al direttore, il russo Vladimir Delman, che da lontano un poco a Verdi assomiglia, con tutti quei capelli bianchi e i baffi e la barba anche loro bianchi. E il modo di dirigere preciso e secco, senza concedere nulla alle bellurie del gesto ma badando solo all'essenziale. Non ha stravolto i tempi, Delman, non ha accettato nessuna linea d'enfasi. Ha interpretato con rispetto e con commozione, con convinzione e con concentrazione, badando all'essenziale. Un po' come dirigevano alcuni celebri maestri del passato, Tullio Serafin, tanto per fare un esempio, o Antonino Votto. Nessuna volontà, cioè, di dare una lettura assolutamente originale, ma invece rispetto dei tempi, precisione negli stacchi, estrema accuratezza nella concertazione. Si merita il plauso di tutti, anche del melomane scatenato Paolo Mezzelani, assente ingiustificato e che ha perso così l'occasione di partecipare a una gran bella serata nella "sua" Arena.
La compagnia di canto era di tutto rispetto. Ottima la prova del contralto Alicia Nafè, dalla voce timbrata, calda ed espressiva.
Cecilia Gasdia ha toccato momenti di rara bellezza, ma nel registro medio ha lasciato non poco a desiderare. Da lei si dovrebbe pretendere di più. Impeto, slancio, sicurezza nell'emissione sono le caratteristiche del tenore Variano Lucchetti. Ma anche, almeno in questa occasione, intonazione non sempe esatta e scarsa partecipazione, specialmente nei suoi momenti più belli, vale a dire l'"Ostia et preces" e "L'ingemisco". Completava il quartetto vocale il basso Borsi Martinovic: una prova riuscita a metà. Nobiltà d'intenti, esattezza di intonazione, facilità di scansione, ma voce non troppo robusta, vagamente ingolata e, soprattutto, priva di fascino. Tutti però si sono affidati alle esperte mani del direttore, che ha saputo guidarli molto bene. Ottima la prova del coro del teatro di Parma, un complesso guidato dal maestro Tanzi, ma che si sente lontano un miglio che è passato anche sotto i consigli e gli insegnamenti del grande Romano Gandolfi. Decorosa, a parte gli ottoni, l'orchestra "Arturo Toscanini" dell'Emilia Romagna.
Insomma: una vera serata di musica. Un viatico migliore per le vacanze non si poteva desiderare.
Giuseppe Tarozzi
(Il Sole 24 Ore, 3/8/1986)

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