Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, maggio 07, 2006

Il Quartetto LaSalle

Quarant'anni senza cattive abitudini.
Mr. Levin, il Quartetto LaSalle mi sembra che esista da sempre. Alcune biografie citano il 1946, addirittura, come anno di nascita. Il che significherebbe, fra un paio di stagioni, compiere quarant'anni di attività, è esatto?
Siamo vecchi, ma non così tanto: il quartetto si è in effetti formato quando ancora eravamo studenti, circa nel 1946, ma suonavamo per nostro piacere. L'attività vera e propria iniziò nel '49, dopo che tutti ci licenziammo dalla Juilliard.
Allora non sono quarant'anni, ma solo trentacinque. E il nome LaSalle fu di uno dei primi esploratori del Nuovo Mondo: c'è un rapporto con la vostra vocazione per la musica contemporanea?
Oh no, è un puro caso: è intitolata a LaSalle una strada vicina alla JuIlliard School. Stavamo parlando al telefono con Robert Mann, primo violino del Juilliard Quartet, che ci faceva un po' da padrino: e quando ci consultammo per trovare un nome, guardò fuori dalla cabina telefonica, lesse il nome della strada e disse "LaSalle".
Bello, un po' alla Woody Allen. E siete sempre stati gli stessi, fin dal primo giorno?
Tutti, tranne il violoncello. Quello l'abbiamo cambiato varie volte. Solo che il primo rimase nel gruppo per vent'anni, e quest'ultimo, Lee Fiser, è con noi da dieci.
Siete proprio volubili. Che effetto fa essere un'istituzione, arrotondiamo, quasi quarantennale?
Nessuna sensazione particolare, non teniamo a considerarci e farci considerare una istituzione. E' solo piacevole scoprire che suoniamo meglio di trent'anni fa, che possiamo fare più cose e migliori. Nient'altro. Anche oggi guardiamo al futuro, il nostro orientamento non è "di tradizione"; reinvestighiamo sempre le basi del nostro lavoro, facciamo un continuo riesame. Nutriamo molto sospetto verso la "tradizione": spesso non è altro che la somma delle cattive abitudini del passato. Tutto è come il primo giorno.
E in che modo reinvestigate le basi del vostro lavoro?
Studiando e suonando sempre qualcosa che ieri non suonavamo.
Pezzi contemporanei?
Nuovo per noi può non voler dire nuovo in assoluto, ma, ad esempio, i Quartetti di Haydn. Ci sono quartetti di Haydn che per molti aspetti sono sperimentali nel vero senso della parola. E capita di rendersene conto fino in fondo solo dopo avere eseguito brani di Ligeti, o di Berg. Ecco, questo intendiamo per reinvestigare le basi del nostro lavoro.
Leggo una sua dichiarazione: "E' essenziale interpretare la musica contemporanea per conoscere meglio i classici". La scuola e la storiografia tradizionale, lei sa, propugnano l'esatto contrario.
Infatti la scuola non forma veri interpreti. Ciò che intendevo esprimere è esattamente questo: la musica attuale, per come è pensata e scritta, ha bisogno che ciascuna voce sia ben sottolineata, messa in risalto, in vista di risultati sonori ben precisi, programmati. Negli ultimi Quartetti di Beethoven, ad esempio, dove non si possono rendere udibili certi effetti se non differenziando e sfumando molto la tavolozza dei colori.
Finalmente lo sento dire da un musicista: è il presente che spiega il passato e non viceversa.
Almeno per noi, Quartetto LaSalle, è sempre stato così: le più importanti illuminazioni su certi lavori classici sono venute dopo aver suonato pezzi moderni. Lei avrà notato che i nostri programmi sono mai fermi su un solo autore. La verità è che un compositore spiega l'altro. Noi non amiamo i cicli - tutto Mozart, tutto Haydn, tutto Beethoven - ma i programmi combinati per giustapposizioni e contrapposizioni. Un musicista mette in luce aspetti di altri musicisti: Webern-Schubert, Berg-Beethoven; a noi piace indagare quelle segrete relazioni, proporre quei legami sotterranei. E magari finire, o inframmezzare, con le Cinque fughe a quattro voci del Clavicembalo ben temperato di Bach trascritte da Mozart per quartetto d'archi, delle quali non esiste musica stampata, ma solo il manoscritto. Ecco, a noi piacciono queste cose. Il che non significa essere enciclopedici; noi non siamo affatto enciclopedici nel nostro lavoro. Andiamo alla ricerca di corrispondenze.
E il pubblico riesce sempre ad afferrare quei fili nascosti?
Si, molto meglio che proponendogli monografie e cicli. Non c'è bisogno di guardare alle platee tradizionalmente più sensibili al camerismo e alla musica contemporanea. Lo vediamo anche qui in Italia: abbiamo suonato davanti a duemila persone nel Duomo di Piacenza, e abbiamo avuto la netta sensazione che tutti avessero capito. Non è vero che la vostra vita musicale sia tutta legata al mito del bel canto. Noi troviamo che le cose siano cambiate. I grandi direttori sono italiani: Giulini, Claudio (Abbado n.d.r.), Muti. Avete grandi pianisti: Michelangeli, Pollini; grandi compositori: Gigi (Nono n.d.r.), Berio. Semmai sono proprio i cantanti a mancarvi; i migliori oggi sono stranieri. Per quel che mi riguarda, il mio idolo è sempre stato Toscanini. Quando ero un giovane studente, qualche strada più avanti c'era la sala della NBC. Ogni giorno ero là: seguire le prove di Toscanini è stata l'esperienza musicale più sconvolgente per me. Ero d'accordo su tutto. Mi dicevo: questa è la via. E non mi sono più ricreduto. Quella era veramente "educazione musicale", civiltà musicale.
Avere un pezzo eseguito dal Quartetto LaSalle, per un compositore è un "imprimatur". Ricevete molte proposte?
Centinaia.
E come vi comportate? Avete avuto problemi con i musicisti?
E' sempre un problema, sia l'eseguire il pezzo di un tale compositore, sia non eseguirlo. Nel primo caso gli altri si chiedono perché quello, nel secondo l'interessato si sente come bocciato.
In effetti, con il vostro nome e la vostra esperienza, non potete non sentirvi anche un po' giudici della musica contemporanea.
E' difficile far finta di non esserlo, anche se, onestamente, non ci sentiamo affatto tali. Ci difendiamo come possiamo. Diciamo che ci è impossibile eseguire tutto quel che viene proposto, che abbiamo molti impegni; ed è vero. C'è un fondo di verità in questo: oltre a non essere enciclopedici, siamo anche molto lenti nel nostro lavoro. Abbiamo impiegato due anni per imparare il pezzo di Ligeti; il Quartetto di Luigi Nono, solo oggi, dopo tre anni, possiamo dire di conoscerlo a fondo. Ci sono gruppi, anche giovani, che suonano tutto di tutti. Si vede che imparano in fretta, noi li ammiriamo, non so come facciano.
Per noi studiare un nuovo pezzo è un lavoro lunghissimo. Lo si esamina, lo si legge, lo si prova, poi lo si mette da parte. Lo si riprende e c'è ancora molto da fare, perché ci appare diverso dalla prima volta. Per il Quartetto di Nono è stato così: è cambiato con noi e noi siamo cambiati con lui. Oggi lo eseguiamo in maniera molto diversa dalla prima alla Scala, nell'80.
Lo avete registrato?
Sì, abbiamo voluto farlo solo ora perché adesso ce ne sentiamo sufficientemente padroni. Ma siamo anche sicuri che fra qualche anno scopriremo altre cose che non avevamo messo a fuoco.
Siete mai stati in disaccordo su un nuovo pezzo da eseguire? Se qualcuno dice sì e altri no, come vi comportate? Lo eseguite lo stesso?
Suonare insieme da trentacinque anni significa avere molte cose in comune e un sostanziale accordo nel valutare la musica. No, non abbiamo mai avuto divergenze di opinione a proposito dei pezzi da suonare, nuovi o vecchi che fossero. Succede però che, a turno, ci si disamori un po' di alcune pagine. Che alla viola non piaccia più molto suonare quel pezzo o al violoncello di suonare quell'altro. In questo caso non c'è nessun problema, il repertorio è vasto e quella partitura è messa da parte. La si ripenderà più avanti. Oppure mai. Se uno di noi non suona volentieri una certa cosa, tutto il quartetto suona meno bene. E poi c'è un altro problema fondamentale: non si può giudicare un pezzo alla sola lettura. Bisogna suonarlo molte volte. Ci sono risultati acustici che solo l'esecuzione può rivelare e che nemmeno sospettavi. Ad esempio, alcuni pezzi dell'ultimo Webern alla lettura ti sembrano schematici, quasi aridi, non sai esattamente che cosa ne possa uscire. Poi li suoni e ti si apre un mondo. No, non abbiamo mai la presunzione di essere giudici definitivi di una pagina che vediamo per la prima volta.
Vi è passata sotto gli occhi e fra le mani la musica di quasi mezzo secolo. Qual è l'oggetto amato dalla ricerca nel secondo novecento?
Il colore strumentale, il timbro. Si sono avute molte composizioni sperimentali fondate su estreme differenziazioni ritmiche. Ma il timbro è stato al centro di questi trenta-quarant'anni di musica. Ci sono ricerche timbriche anche negli ultimi Quartetti di Beethoven, ma mai il timbro è stato così dominante nell'attenzione dei compositori. Il timbro è il vero parametro della musica nel secondo dopoguerra.
Perché?
Perché ormai, al punto in cui è arrivato il linguaggio, dopo la disgregazione della tonalità e dell'armonia classica, è la grande differenziazione dei colori strumentali che può tenere ben distinte le voci. Il timbro diventa elemento strutturale, cui si affida il nuovo contrappunto.
Ciò comporta una tecnica strumentale ad hoc, completamente diversa dal passato. Ma questo nuovo modo di suonare si adatta ai classici?
E' proprio quello che tì fa capire i classici. Prendiamo l'Op.20 n.3 di Haydn, in Sol minore. La discontinuità è il principio che informa la composizione; quasi tutte le frasi di questo Quartetto hanno lunghezza irregolare. Per molti, Haydn è il padre della sinfonia ed è un compositore tonale. Quando non è l'uno né l'altro, non lo eseguono, perché lo trovano "sbagliato". Se invece sei abituato dalla musica contemporanea a tutte le irregolarìtà possibili, quando incontri un Quartetto di Haydn costellato di dissonanze e di schemi metrici irregolari, non lo butti via, ma lo prendi per quello che è: sperimentazione. Quasi nessuno è invece disposto a vedere sperimentazione in Haydn, l'Haydn dei Quartetti per archi, beninteso. Nemmeno alla casa editrice Peters: di fronte a una frase di sette misure, non si sono domandati se ciò fosse voluto. Hanno detto "non può essere" e l'hanno corretta in otto misure.
Avete trovato molte prodezze di questo genere?
Decine, centinaia. Nelle edizioni Peters di Haydn niente è giusto, non il fraseggio, non le arcate, non le note, a volte nemmeno le chiavi. Intere partiture sfigurate.
Perché è avvenuto questo?
Perché si sono prese per buone, come oro colato, tutte le sovrapposizioni e le incrostazioni depositate sulle pagine, più tardi, dai musicisti e dagli interpreti che hanno riprodotto pari pari tutte le revisioni di Joachim. Quando Haydn non era regolare o tonale, lo si cambiava.
E voi, Quartetto LaSalle, come ovviate?
Riprendendo i manoscritti originali.
Signor Levin, io l'abbraccerei. Lei sta confortando un'ipotesi con cui la musicologia si riempie la bocca, ma cui nell'intimo non crede: che il romanticismo non solo occultò, ma spesso distrusse o confuse le prove della grandezza del classicismo e del settecento in generale, alto barocco compreso. E che solo oggi si comincia a mettere qualcosa in ordine, ma a cominciare da voi interpreti.
E' vero, basta guardare quanto abuso di vibrato si è fatto e si fa in certa musica, arrivando a confondere la purezza della forma, a soffocare il canto. Si fa un uso smodato di salse su una carne squisita. E questo è un altro insegnamento che viene dall'esecuzione della musica contemporanea.
E in quell'ottica del timbro come centro della musica di oggi, che cosa ha portato di nuovo un pezzo come "Fragmente Stille" di Novo? Dato che è scritto nel 1980, si possono intravvedere tracce per il futuro?
Nel Quartetto di Luigi Nono il suono è il risultato di quattro laboratori contemporanei, di quattro colori multipli, ottenuti con sovrapposizioni di molti e diversi accordi. Ma completamente nuova, che mai si è vista prima nella musica, è la completa sospensione del Tempo. E' una musica senza evoluzione, che si apre ora al passato, ora al futuro. Non è unidirezionale. Ligeti va chiaramente da un punto all'altro. Ma quando suoni il pezzo di Nono, sei sempre equidistante dall'inizio e dalla fine. In effetti, non ha inizio né fine. Il Tempo è sospeso in Fragmente.
Dal Timbro al Tempo?
E' probabile.

Carlo M. Cella (Musica Viva, Anno VIII n.7/8, luglio/agosto 1984)

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