Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, maggio 05, 2006

Reynaldo Hahn: "Du Chant" in traduzione italiana

"Lezioni di canto" è la recente traduzione italiano di Du Chant, edito in Francia nel 1920 e ristampato dall'editore Gallimard nel 1957.

L'autore è Reynaldo Hahn, nato a Caracas, in Venezuela, nel 1874, condotto a Parigi dalla famiglia nel 1877, francese a tutti gli effetti, morto a Parigi nel 1947.
Du Chant è un libro del quale ho parlato più volte, in questa sede e in altre. Pubblicato ora in italiano, nella collana "Musica critica" dell'editore Marsilio, si presta a un discorso più ampio. Ma nei limiti che questa rubrica consente. Perché se dovessi dire tutto ciò che Lezioni di canto mi induce a pensare, finirei per scrivere a mia volta un libro. Come dice Hahn, "il canto è un argomento inesauribile".
Una bella prefazione di Giovanni Morelli, che con Mario Messinis è uno dei direttori della collana, mi esenta dal soffermarmi su questo straordinario personaggio, sui suoi legami con i maggiori letterati francesi dell'epoca e sulla posizione che occupò nella società alla quale la Recherche di Proust si rifece. Critico musicale, compositore di opere, di musiche di scena, di balletti, di romanze e anche cantante e direttore d'orchestra di molti meriti come mozartiano, Hahn fu al centro della vita culturale della Parigi dei suoi tempi. La prefazione di Morelli, al quale dobbiamo anche la traduzione, accenna che il gusto musicale di Hahn sembra in qualche modo affine sia a un Settecento rivisitato da Verlaine, sia al filone neoclassico-parnassiano che ebbe come figura di centro Charles de Lisle. Ma, a proposito di parnassiani, io penso più alla compiutezza dei sonetti di de Heredia, a Prudhomme e a Mallarmé, il più attento forse al valore musicale della parola. Il valore musicale della parola è uno dei punti sui quali Hahn più spesso si sofferma e indaga.
Lezioni di canto raccoglie i testi di nove lezioni che il mondanissimo Hahn tenne, nel 1913, nel mondanissimo ambiente dell`"Université des Annales", a beneficio d'un pubblico forse prevalentemente femminile. Hahn aveva studiato il canto. Cantava con molto gusto, ma con una voce di tenore piccola, corta e piuttosto povera di armonici, stando ai dischi che incise. Durante le lezioni dava esempi e seguiva pagine di musica da camera, i cui testi sono riportati nel libro. Che fosse un evocatore di modi vocali di altri tempi, come si accenna nelle note di presentazione, è verissimo; ma che mirasse a una valorizzazione estetica dello sperimentalismo vocale e dell'avanguardia dell'epoca, non mi sembra proprio. Una delle sue affinità con il movimento parnassiano fu l'"archeologismo", cioè guardare indietro, riscoprire il passato. Gli autori più cari a Hahn sembrano essere Gluck e Mozart, e magari anche Rameau e perfino Lully. Nel campo della musica cameristica si spinge fino a Fauré. Il romanticismo operistico, in cui stranamente include anche Rossini, non sembra interessarlo soverchiamente.
Sin dall'inizio dichiara guerra ai cattivi cantanti e ai comportamenti "criminali" dei maestri di canto. Dei cantanti dichiara che di solito sono ignoranti in senso generale e mancano di curiosità in materia di ciò che concerne la loro arte. Perciò, aggiungo io, ben pochi cantanti leggeranno questo libro, che è, invece, per lettori colti. Sulla mancanza di cultura dei cantanti Hahn tornerà spesso. Si chiede come si possano interpretare personaggi storici senza sapere nulla della letteratura e delle arti figurative, nonché delle vicende dell'epoca in cui vissero. Ammette tuttavia, in una delle ultime lezioni, che a volte l'istinto può porre riparo all'ignoranza. Ribadisce però, nella IV, lezione, che il vero "stile" implica una conoscenza della storia e dell'arte del periodo in cui un'opera è ambientata; e che non si ha stile se ci si limita a imitare lo stile di altri cantanti.
Un altro punto approfondito è nella II lezione. Il cantante, nota Hahn, non è come il pittore, il musicista o lo scrittore che operano in solitudine e possono correggere o rifare. Il cantante, in un attimo fuggente, deve dare forma e sostanza definitiva a ciò che gli esce di bocca. Per questo il suo lavoro non soltanto è difficilissimo, ma implica una continua tensione dell'intero organismo, sotto il ferreo controllo della mente. Ma di solito i cantanti "non si curano di ripassare mentalmente e senza tregua il lavoro vocale; e non sanno renderlo meccanicamente spontaneo". E subito dopo: "Il vero lavoro del canto è mentale". Al cosiddetto "cuore" Hahn dà un'importanza minore. Il cuore "non va scomodato" troppo spesso, afferma nella IX lezione. Altrove nota che i racconti uditi sulle lacrime d'una Malibran immedesimata d'una certa situazione lo lasciavano incredulo. Oppure, aggiunge, ammesso che piangesse, se subito dopo seguiva una frase acrobatica, immediatamente le lacrime sparivano.
Un'altra cosa - giustissima - che Hahn nota a proposito dei cantanti (soprattutto dei grandi cantanti) è che spesso non sanno come fanno a cantare e meno che meno sono capaci di spiegarlo. Porta ad esempio Adelina Patti, che, a chi le chiedeva spiegazioni su come fosse giunta a dominare il suo splendido strumento vocale, si limitava a rispondere: "Ho sempre fatto così".
Due lezioni, la II e la III, sono prevalentemente dedicate alla tecnica. Già nella I, Hahn asserisce che chi confessa d'essere sensibile alla "pura bellezza materiale" d'una voce confessa la sua debolezza fisica, la sua "morbosità" e anche "la sua pochezza intellettuale". Figuratevi se chi scrive non condivide questo concetto. Dirà poi Hahn, nella lezione conclusiva e riepilogativa (la IX) che il cantante deve sforzarsi di conquistare "con un lavoro minuzioso di preparazione delle singole esecuzioni la padronanza tecnica di quei mezzi che dovrà poi mettere a disposizione del suo pensiero, della sua immaginazione o del suo cuore". Soltanto dopo potrà, grazie a un sistema di infinite osservazioni, infinite meditazioni e contemplazioni, conferire al suo canto "quella potenza espressiva, dinamica, allucinante, senza la quale il canto stesso non ha ragione di essere". Prima ancora, nella VII lezione, affermerà: "l'espressione è inseparabile dalla tecnica". Il che potrà sembrare lapalissiano a qualcuno, ma strano e limitativo a molti, ai nostri giorni. Ma, come poi vedremo, poteva sembrarlo anche nel 1913, anche se è difficile pensare che, ai tempi di Hahn, si applaudissero certi ignobili berciatori con lo stesso fanatismo con i quali li udiamo applaudire oggi.
Ma, parlando della tecnica nella II e III lezione e fustigando di quando in quando gli insegnanti ciarlatani, Hahn fa una giusta osservazione. I maestri di canto, dice, si occupano molto più della inspirazione, quando parlano della respirazione, che della espirazione. (Intervengo io: manco male che, a quel tempo, parlassero di respirazione; oggi i più non si occupano affatto della respirazione o, quando se ne occupano, è per raccomandare di "affondare il diaframma"). Ora, prosegue Hahn, l'espirazione è fondamentale e dev'essere "lenta e parsimoniosa". Diversamente non si hanno alternative dinamiche e sfumature e quindi non si fraseggia, non si rispettano i segni di espressione e simili.
Hahn è però in errore quando asserisce che ognuno deve avere la propria respirazione. Il fatto è che, nel 1913, la foniatria non aveva ancora fissato in modo definitivo il meccanismo della respirazione. In altri termini il debole di Hahn è la limitata conoscenza della fisiologia vocale. Gli avviene di parlare di "contrazioni della laringe" e di "muscoli del diaframma". E come se io dicessi: "I primi ministri del presidente del consiglio". Dipende anche dal fatto che i numi tutelari di Hahn erano, in fatto di pedagogia, due grandi cantanti: Lili Lehmann e JeanBaptiste Faure. Tanto di cappello alla Lehmanm almeno come teorica, ma il baritono Faure ne sballava a volte di grosse. Vedere le troppe pagine dedicate a un dubbio espediente che Faure sponsorizzava e cioè il cosiddetto colpo di glottide. Ma altre notazioni sono giuste. Come quella che i cantanti, anche di bel timbro, che non sanno modulare, sono monotoni e noiosi. 0 l'altra che chi canta non deve pronunciare né le consonanti né le vocali come quando si parla. Se pronunciamo le consonanti, nel canto, come quando parliamo, nota Hahn, la voce diventa spigolosa, irregolare, disomogenea, a volte sonora, a volte sorda. Perché le consonanti (specie nella lingua francese: n.d.r.) sono così: sonore, sorde, gutturali, nasali. Quanto poi alle vocali, chi canta deve dare loro le trasformazioni necessarie a compensare i "rumori laringei". Che cosa siano i rumori laringei proprio non saprei, ma gli esempi che poi dà Hahn chiariscono. Si tratta di modificare i colori delle vocali per dar luogo ai suoni che la moderna foniatrìa definisce come "neutri" o "intervocalici". Senza il loro graduale arrotondamento in ascesa (n.d.r.) non si può passare di registro e il suono, negli acuti, diventa grido.
Hahn si occupa, beninteso, anche del passaggio di registro. Dà anzitutto, dei registri della voce umana (tre nelle donne, due negli uomini), una definizione empirica ma sostanzialmente giusta. "Registro è quella serie di note che può essere cantata senza cambiare posizione alla laringe". "Ma poi aggiunge, con l'appoggio di Lili Lehmann, che ogni nota richiede una posizione particolare della laringe e degli altri organi addetti alla fonazione e che quindi esistono tanti registri quante sono le note. Può sembrare un'eresia, e per certi aspetti lo è, perché il movimento ascensionale della laringe, quando la voce sale, subisce un moto contrario (cioè un lieve abbassamento) solo nel momento in cui avviene il passaggio vero e proprio, per poi riprendere la ascesa. Sugli altri suoni questo non si verifica. E' vero però che non si passa da un registro all'altro senza una preparazione preventiva, che è poi il progressivo arrotondamento del suono nell'ascesa.
Comunque, non è nella parte strettamente tecnica che Hahn emerge. E' nella concezione di un canto vario, nobile, coinvolgente, sorretto, oltre che dalla tecnica, dal "gusto" e dallo stile. E tutto ciò che Hahn dice è volto a esemplificare ciò che sono il gusto e lo stile e a spingere chi canta a impadronirsi dell'uno e dell'altro e a esprimersi in modo emotivo. Ciò che richiede, lo si è già visto, una ferrea applicazione.
Senza di questo la personalità del cantante sarà incompleta o, addirittura, sarà inquinata dalla fatuità e dalla cialtronaggine.
Ma è anche come storico della vocalità che Hahn si fa valere. Per esempio, fu il primo a comprendere che il belcantismo cessa allorché compare il romanticismo e che è incompatibile con qualsiasi operista i cui lavori si improntino al realismo. Perché il belcantismo, osserva Hahn, è al polo opposto del realismo, in quanto deforma e stilizza la realtà. Tutto questo è illustrato in alcune pagine della V lezione con un intuito e una sottigliezza straordinari e una seducente chiarezza di linguaggio. Hahn chiarisce qui e altrove di non amare il canto virtuosistico, ma si rende anche conto della necessità di conoscerlo e praticarlo. Intanto perché anche un vocalizzo e un ornamento si prestano ad essere resi in modo espressivo. D'altronde vocalizzi, trilli, e ornamenti compaiono anche in opere non belcantiste e chi non sa eseguirli, dice Hahn citando la Lehmann, è come "un cavallo senza coda". Tipici del belcantismo, aggiunge poi, erano il perfetto legato e il suono morbidissimo, quintessenziato, emesso a tutte le gradazioni d'intensità. Nella IV lezione, Hahn si scaglia contro il vezzo dei cantanti di "gridare sempre". Le sfumature, rivelatrici del mutare degli stati d'animo, sono sempre trascurate. Non esiste più, nell'opera, "il tono della conversazione". Il cantante pensa solo a sbraitare, ignorando la volontà dell'autore. Come raro esempio della potenza espressiva che può essere raggiunta "come un'oculata amministrazione delle sonorità", Hahn cita Chaliapine. In conclusione: mancanza di gusto è anche mancanza di tecnica e viceversa. Altrove Hahn osserva (e anche in questo io concordo) che di solito le cantanti hanno più gusto dei cantanti perché già abituate, nella vita quotidiana, a sorvegliare il proprio abbigliamento, il proprio trucco, i propri atteggiamenti.
Nella VI lezione Hahn enumera le cause della progressiva decadenza del canto, individuate anzitutto nella scomparsa delle cappelle e delle cantorie, anche parrocchiali, che erano vivai della vocalità e infondevano nei bambini amore del canto, preparazione musicale e tecnica e gusto sorvegliato.
Altra causa: l'incompetenza del pubblico rispetto a quello d'un tempo, buona parte del quale sapeva di musica. Insomma, già nel 1913 poteva accadere che "un pessimo cantante o una cantante ignorantissima" si imponessero a un pubblico non meno sprovveduto. "Un bel fisico, due o tre note molto squillanti, una ventina di amici di rango... ed è fatta". Aggiungere la compiacenza della critica musicale.
Hahn diceva queste cose quasi ottanta anni fa. Oggi la situazione sarebbe identica se non l'avessero aggravata i "mass media" e in particolare la televisione, con gli smielati elogi a cantanti in rovina, la vaselina spalmata sui fatti più ignobili, i successi prefabbricati e le opprimenti interviste in cui chi interroga è in perenne gara di smidollato conformismo e vuoto mentale con chi replica. E' il sistema brevettato per rendere sempre più ignara la maggior parte del pubblico.
Perciò, lettori che mi siete amici, pochi o molti che siate, ascoltate pure le sbobbe e le menzogne televisive sui falsi eroi dell'opera, ma, vi prego dal fondo del cuore, boicottate la Domenica sportiva e le trasmissioni similari. Sempre più restringono le riprese delle fasi di gioco è ovvio che parlo del calcio - per lasciare il posto a commenti stereotipi e caramellosi e a interviste fasulle, in cui tutti biascicano le solite idiozie e nessuno dice la verità.
Torno a Hahn per un'ultima, ma fondamentale, chiosa. Ha uno stile di conversazione affascinante e spesso divertente, grande fantasia, dovizia di immagini, esemplare chiarezza. Io, per esprimere le sue idee, ho fatto ricorso a una scrittura piuttosto pedestre, ma la traduzione lo serve bene, anche dove inserisce in una vivacissima facondia salottiera tocchi di linguaggio attuale.

Rodolfo Celletti (Musica Viva, Anno XIV n.11, novembre 1990)

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