Siegfried (Arthur Rackham 1867-1939) |
Elemento tra gli elementi, fiore tra i fiori, cucciolo tra gli animali, Siegfried va intanto vagando per la foresta: a tutti amico, amici a lui tutti. Il ruscello gli specchia la florida figura, gli alberi lo proteggono della loro ombra, gli orsi lo seguono mansuefatti. Se non che, non è egli appena riuscito a strappare al nano il segreto della propria nascita, che subito il sangue dei Wälsídi ribollentegli nelle vene lo spinge a gesta di battaglia e di vittoria. Ritemprata a ferro e a fuoco la spada del padre spezzata un giorno da Wotan, per inesorabile destino, crudele sempre contro la propria schiatta, Fafner cade sotto quell'infallibile taglio, dopo aspro combattimento. Lo segue poco dopo nella stessa sorte Mime, colpito d'un sol colpo, con nausea e con spregio. Ora il gaio richiamo d'un uccel di bosco guida il giovane eroe verso 1a Walkiria addormentata nel cerchio delle fiamme. Ma la via gli viene sbarrata dallo stesso Wotan. Un urto breve e acerbo: il dio è vinto spezzata per sempre la sua lancia di frassino. Siegfried può ormai traversare le fiamme con gioiosa immunità. Fra tante prove, non l'esitazione di un istante, non un brivido, non un tremore. La paura ingenuamente voluta e mai potuta apprendere, egli la proverà, per la prima e per l'ultima volta, davanti alla vergine dormiente, effusi i biondi capelli fuori del casco d'argento. In quel momento stesso, una sola immagine egli disperatamente puerilmente invoca: quella della madre. Ma infine quale trionfo! In gioia canto e amore, esulta il «giovanile eterno » sotto il sole. Suona, suona il tuo corno, mio, buon Siegfried, padrone del mondo! Ne hai tutte le ragioni. Ore come la tua, possono ben valere anche una vita intera!
«Stupido» (dumm) Siegfried è stato chiamato da molti a cominciare da Mime suo pessimo educatore, per finire con lui stesso, pessimo educato. Se non che la sua Dummheit, risulta ad un attento esame alquanto più ricca e significativa, che non possa far credere una facile ironia ed una ancora più facile caricatura critica. «Inconscio» eterno, in cui già affondano le proprie radici il Tao, il Budda, e le speculazioni ed esperienze mistiche di Grecia; colore audace se non proprio sostanza nutritiva di parecchie mistiche cristiane antiche medie e del rinascimento, esso fermenta tanto piú vivo e balza al primo piano, avversario tanto più temibile, quanto più la razionalità eccede nel celebrare le proprie conquiste e qualche volta le proprie orgie. Per scendere ai tempi nuovi: fondo oscuro, volontà cieca, mera sensibilità, fondamentale Unbewusstes insomma, di Hamann, del tardo Schelling, di Feuerbach e di Schopenhauer, rimesso in valore da pragmatisti, vitalisti, psicoanalisti, razzisti moderni e modernissimi, doveva trovare, con dinamismo nuovo pregno di vita, la sua imperitura incarnazione nel Faust goethiano. Natura, intesa come primordiale innocenza perennemente conculcata dal tortuoso orgoglio della razionalità - e con questo è già detto Rousseau e in tono insieme rnaggiore e minore Herder e Hölderlin - si costruiva invece presso gli epigoni di quel medesinio Faust in visione di paradiso amaramente perduto, faticosamente da ritrovare. Tre persone, circa o poco dopo la metà dell'Ottocento, se ne misero tenacemente in cerca. Siegfried, Peer Gynt, l'«Idiota». Immerso il primo nella selva e preso in sogni di nativa cavalleria; tutto proteso il secondo verso un «se stesso» che non ritrova alfine se non nell'innocenza altrui; vagolante il terzo in tormenti morbidi per raffinati salotti pietroburghesi. Tendenze e temperamenti diversissirni: comune l'itinerario e la mèta. E' più che lecito sentirsene spiritualmente lontani e avversi: impugnarne il valore d'arte e di vita non è possibile.
Rivoluzionario anarchico fu battezzato Siegried da parecchi, a cominciare da Nietzsche e a terminare con Shaw, per il suo dispregio d'ogni etica tradizionale e per il sito impetuoso calpestare di ogni legge. E' la verità: ma non tutta la verità. Per quanto spirito di Bakunin gli si voglia trovare - in realtà pochi tratti esterni impressigli da un passeggero spirito di fronda -; per quante parentele gli si possano riconoscere con lo Stürmer suo antenato, o col «superuomo» suo contemporaneo di poco più giovane, Siegfried rimane una sintesi a caratteri inconfondibili. Tale lo rendono il sicuro sentore del giusto che è nel fondo della sua inconsapevolezza - onde, lungi dall'essere quell'amorale che comunemente si predica egli si erige sempre e soltanto contro le forze del male, e, per fare il male egli stesso, deve prima essere stordito con un filtro - l'alone della poesia e della giovinezza eterna che circonda la sua figura e le sue gesta; e infine una tenerezza singolare davvero nel suo costume selvaggio, che trova la sua più alta espressione, non nel prorompente amore dei sensi, ma nella simpatia per le creature, e piú ancora nella «compassione» per la madre. Se un fratello dunque, gli si vuole, assolutamente cercare, non può essere trovato in altri che in Parsifal. Fratello crociato cristiano, di lui eddico e pagano; fratello cercatore tenace d'un tempio piuttosto che vagabondo senza mèta per selve primordiali; ma tanto lui «puro folle», quanto Siegfried «stupido», fanciullo. E l'uno e l'altro, nel loro fondo ultimo, sempre e soltanto inconscio e natura. Veramente, se una volta soltanto Nietzsche avesse a questo posto attenzione, quanto minor tormento per lui, e quanta minor collera rovesciata su Wagner!
Nè puro anarchico, dunque, nè puro stupido, Siegfried. Il solo vero stupido della Tetralogia, è, se mai, il gigante Fafner. Ma di fronte al suo «io giaccio e dormo», l'eroe fanciullo potrebbe trionfalmente rispondere: «io agisco e son sveglio». Tanto sveglio, da poter destare altrui alla vita e all'amore. Nè meraviglia che a lui, natura inconscia perchè innocente e innocente perchè inconscia, Wotan, non mai sazio di sapere, ceda in volontario dissipamento; e che alla sua volta il dio, pur sempre un poco illuminato da quell'occhio dell'amore, ch'egli ha sì incautamente scambiato per la saggezza di Fricka, ma con aperto orgoglio ancora rivede nei proprii nipoti, affondi per sempre Erda, madre e posseditrice di ogni sapienza. In dominio naturistico, nemico massimo, eterno, rimane sempre il sapere. Ecco, ad ogni modo, dopo,un prologo e una vigilia tutti intesi alla vicenda e alla tragedia del dio, ritornato legittimamente al primo piano quell'eroe, dalla cui morte, come gagliardo tronco dal seme, è germogliata e cresciuta l'intera Tetralogia. La stessa Brünnhilde, conquistata in quel che ha di più sacro e geloso, la sua virginea divinità, si propone ormai, diventata donna e umana, di «sapere» tutto ed esclusivamente per Siegfried, con la sua saggezza consustanziata di solo amore. Che cosa manca ancora, dunque, all'eroe, perchè non si senta dio egli stesso, e più grande e più felice dì Wotan? Ma le Norne, ministre del destino, continuano a tessere, sull'altura aspra e solitaria, la loro implacabile tela!
Dramma il Siegfried di salda architettura e di alta poesia: anche se lo appesantiscono le solite ripetizioni e lungaggini - tenzone e contrasti tra il Viandante e Mime, tra Mime e Alberico, tra il Viandante e Siegfried ecc. - e se un che di baroccamente prezioso, prenda qua e là sopravvento, e più che altrove, nel colloquio finale d'amore tra.Siegfried e Brünnhilde. Armonicamente piantato sulle solide arcate dei suoi tre atti, diviso ciascuno in tre scene secondo la normale ritmica della Tetralogia, se non può certamente gareggiare con la sobria austerità delle tragedie eschilee, rivela tuttavia, ancora una volta, con quale sicuro magistero Wagner sappia costruire e ricostruire dagli ammassi informi o dai frammenti dispersi del mito. D'altra parte, alcuni suoi spunti ed episodi - la caricatura e la paura dì Mime, la tempra di Notung, Siegfried sotto il tiglio tra il vivo murmure della foresta e il pensiero della madre sconosciuta, il suo smarrimento alla vista di Brünnhilde, il risveglio e il saluto della risvegliata Walkiria - riescono senza dubbio ad imprimere nell'animo di chi legge, indipendentemente dal rilievo che loro dona la musica, l'ammirazione delle perfette rappresentazioni d'arte, congiunta alla vibrazione dei sentimenti umani che non muoiono.
Eppure l'«incantesimo» del Siegfried non viene tutto di qui. Viene anche . da quella sua mirabile lingua, tutta irta di anacoluti, tutta sonora e vibrante di onomatopee, tutta iridescente di arcaismi e viva di dialettismi, che, trasferita alla vista, pare cascata di perle, di diamanti e di gemme incastonate in metalli delle più diverse specie: dal ferro al bronzo, all'argento, all'oro purissimo. Viene da quella non meno mirabile allitterazione, che con fulmineo intuito scopre tra le parole di significato più lontano strettissime parentele d'essenza, e, senza nulla perdere della sua asprezza boreale, riesce perfino ad aprirsi all'alito primaverile di qualche rima romanza. Viene, infine, da un sapientissimo gioco di arsi e di tesi, che sotto apparenze modeste e quasi neglette di Knittelvers e di lingua parlata, nasconde tesori di armonie, per fiorire, quando occorra, in effusioni di Lied simili a getti di fontana viva.
Ma, naturalmente, viene sopratutto dalla musíca: Wort-ton-drama giunto alla sua, più alta espressione e al suo più perfetto equilibrio. Era nell'Oro del Reno un deciso prevalere della parola e del ritmo poetico; sarà nel Crepuscolo un prevalere altrettanto deciso del puro elemento sinfonico: toccava al Siegfried l'arte di conciliare e fondere i due elementi nella propria solare meridianità. Innumerevoli le rielaborazioni, le contaminazioni, gli sviluppi dei temi delle giornate precedenti, alcuni in tale figura da raggiungere personalità nuova: paura di Mime, traversata delle fiamme ecc. Relativamente scarsi, invece, i motivi nuovi in senso assoluto. Eppure, di quale profondo valore per la tessitura musicale del dramma! Basterebbero lo Schmiedelied, il Waldweben, il Saluto di Brünnhilde, quasi tre poderosi pilieri musicali sui quali poggiano e si innalzano le tre arcate poetiche del dramma, per rendere chiaro allo spirito più profano, di quali prodigi sia stata operatrice, anche nel Siegfried, l'infinita «melodia» wagneriana. Ma di loro e degli altri motivi che costituiscono la nuova vita musicale del dramma, è detto ampiamente nel commento.
Guido Manacorda, dicembre 1933 (testo riveduto da Giulio Cogni)
1 commento:
Complimenti per il blog e per il sito; mi farebbe piacere linkarti dal mio blog "Musica classica ieri e oggi" (http://albertus82.wordpress.com). Un saluto.
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