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Il periodo che intercorre fra la stesura della Settima e quella dell'Ottava si iscrive nella vicenda di Mahler come uno dei più gravidi di eventi dell’intera sua esistenza. L'estate del 1906 aveva visto il musicista insolitamente operoso a Maiernigg nel completamento dell'abbozzo della nuova Sinfonia, e deve dirsi che un progetto di mettere in musica una parte del testo chiave della letteratura tedesca, il goethiano Faust, doveva aver preso corpo sin dall’estate anteriore, quando egli fu veduto sovente con una piccola edizione del poema che gli spuntava dalla tasca. I mesi di vacanza del 1906 furono dunque dedicati alla stesura delle due ampie parti in cui si divide questa anomala composizione: quella che ha a suo fondamento l’inno patristico Veni, creator spiritus, attribuito all'arcivescovo di Magonza Rabano Mauro, vissuto fra l'ottavo e il nono secolo, e la successiva, basata sull’ultima scena del Faust, la cosiddetta scena delle Gole Montane che conclude l’atto V della Parte Seconda.
Nei mesi autunnali dello stesso anno s'andava, intanto, determinando a misura non più sanabile il dissidio fra Mahler e la Hofoper, presso la quale, a far capo dal principe di Montenuovo, direttore dei teatri di corte, egli contava ormai piuttosto nemici che amici: le lunghe tournées in qualità di direttore d’orchestra, che lo portavano spesso fuori dal paese, la presenza in teatro del protetto Roller, talentoso metteur en scéne ma uomo dispotico e profittatore oltre ogni limite di buon gusto e buon senso, e più tardi l'appoggio concesso alla nuova fazione della musica Viennese, in testa Zemlinsky (del quale aveva imposto l’assunzione) e Schönberg, ne erano i principali responsabili; e neppure le persone dell'entourage artistico e critico (Franz Schalk, Guido Adler e Ludwig Karpath, fra i primi) erano ormai esenti dal manifestare vistose riserve sull’operato del direttore musicale.
La frattura si incrinò ulteriormente nei primi mesi dell'anno seguente: Mahler prese posizione in modo drastico in favore di due composizioni schoenberghiane, il Quartetto op. 7 e la Kammersymphonie op. 9, in occasione della loro esecuzione, il 5 e l’8 febbraio 1907, alla Sala Bösendorfer e al Musikverein rispettivamente; e subito dopo aver diretto, il 18 marzo, l'Iphigénie en Aulide di Gluck partì alla volta dell’Italia, per dirigervi tre concerti a Roma (sugli infortuni di quel viaggio e sul soggiorno romano è stata proprio Alma a lasciare una gustosa testimonianza nel suo libro). E furono tali due circostanze a offrire all’opinione pubblica il destro per nuovi pettegolezzi e a Montenuovo il pretesto per liberarsi di Mahler: se il compositore era stato raramente ammirato (e ancor meno amato), il direttore artistico aveva colmato la misura e insomma s’imponeva un atto liberatorio.
La frattura si incrinò ulteriormente nei primi mesi dell'anno seguente: Mahler prese posizione in modo drastico in favore di due composizioni schoenberghiane, il Quartetto op. 7 e la Kammersymphonie op. 9, in occasione della loro esecuzione, il 5 e l’8 febbraio 1907, alla Sala Bösendorfer e al Musikverein rispettivamente; e subito dopo aver diretto, il 18 marzo, l'Iphigénie en Aulide di Gluck partì alla volta dell’Italia, per dirigervi tre concerti a Roma (sugli infortuni di quel viaggio e sul soggiorno romano è stata proprio Alma a lasciare una gustosa testimonianza nel suo libro). E furono tali due circostanze a offrire all’opinione pubblica il destro per nuovi pettegolezzi e a Montenuovo il pretesto per liberarsi di Mahler: se il compositore era stato raramente ammirato (e ancor meno amato), il direttore artistico aveva colmato la misura e insomma s’imponeva un atto liberatorio.
Per meglio intendere come si dovesse addivenire con la più assoluta reciprocità a tal risoluzione occorrerà far conto di una basilare circostanza: in giugno Mahler incontrava a Berlino Heinrich Conried, impresario del Metropolitan di New York, il quale gli offriva un vantaggiosissimo contratto di quattro mesi come direttore ospite, a partire dal 1° gennaio 1908, con possibilità di rinnovo. Per un uomo esacerbato come Mahler da annose e non più rimediabili querelles, a disagio in un ambiente sempre più ostile e, per di più, bisognoso di mezzi per far fronte a un tenore di vita non propriamente fastoso ma neppur frugale, si trattò indubbiamente di una potente molla; e pertanto in quello stesso mese di giugno furono sancite in modo consensuale, ancorché vincolatorio, le dimissioni più volte minacciate e pretese: l’impresa accettava, in quanto alla liquidazione, le richieste di Mahler e quest’ultimo s’impegnava a sua volta a mantenere il suo posto sino allo scadere dell’anno, vista l'indisponibilità sino a quella data di Felix Weingartner, nominato suo successore.
Ma fu alla conclusione di tal vicenda che si scatenò, per imprevedibile segno, il secondo e ben più violento trauma privato: il 5 luglio 1907 moriva Maria, la maggiore delle due bambine di Gustav e Alma, a causa di una scarlattina aggravata da crup, contratta due settimane prima, contro la quale non valse neppur la disperata tracheotomia tentata la notte precedente il decesso. Il dottor Blumenthal, un medico chiamato in seguito per controllare le condizioni di alma visibilmente sofferente, diagnosticò invece, per sovrappiù, una grave malattia cardiaca a Gustav; e il celebre cardiologo Kovacs, successivamente consultato, non fece che confermare il crudo verdetto: vizio valvolare bilaterale congenito, donde la necessità di una radicale modifica delle abitudini di vita. Quasi sbalordisce, a tal punto, che propri nel prosieguo di quell’estate Mahler trovasse volontà e coraggio per proseguire sulla via della musica: fu dunque strumentata a Schluderbach, piccolo centro ai piedi delle Cime di Lavaredo (oggi Carbonin), l’Ottava Sinfonia, e venne probabilmente iniziato il lavoro al futuro Lied von der Erde.
Trascorsa quell’estate fatale, il 15 ottobre Mahler fece la sua ultima apparizione alla Hofoper dirigendo Fidelio in un teatro semivuoto, e il 24 novembre si congedò dal Musikverein con un’esecuzione della sua Seconda Sinfonia (fra le due date aveva avuto luogo un’ultima tournée in Russia e in Finlandia, e a San Pietroburgo, il 26 ottobre, pare che egli producesse grande impressione sul venticinquenne Stravinskij). Assai tardivamente una larga, autorevolissima fetta dell'intellettualità Viennese (con la sorprendente esclusione di Karl Kraus e l’altrettanto sorprendente presenza di un diciottenne Adolf Hitler) si schierò con il dimissionario direttore, scongiurandone la partenza e dichiarandola scandalosa per la città: Max Burckhard, Peter Altenberg, Hugo von Hofmannsthal, Arthur Schnitzler, Gustav Klimt, Kolo Moser, Sigmund Freud, Stefan Zweig, Hermann Bahr e, naturalmente, Arnold Schönberg. Ma nonostante il pronunciamento di questo impressionante Gotha, il dado era definitivamente tratto: Mahler scrisse il 1° dicembre una lettera di commiato, franca e onesta, ai collaboratori del teatro (l’indomani essa fu trovata a terra, completamente lacerata) e il giorno 9 partì con Alma dalla Stazione Ovest per imbarcarsi poi a Cherbourg sull'Augusta Victoria. Il 21 dicembre 1907 i coniugi Mahler sbarcavano a New York.
Cosa possa aver indotto Mahler alla composizione di una Sinfonia dalla struttura tanto anomala e dai connotati così "celebrativi" come l’Ottava in un periodo in cui sembravano esser venuti in modo definitivo al pettine i nodi della crisi del sinfonismo, è questione sulla quale pare ancor oggi arduo dibattere. Non v'è dubbio che tre Sinfonie quali la Quinta, la Sesta e la Settima avessero, di fatto, già additato le vie che il genere non avrebbe potuto ulteriormente percorrere, pena l’avvitarsi del problema su se stesso; ebbene, ciò malgrado, Mahler pronuncia una parola di fede inconcussa, da rasentare il fideismo, dopo aver tracciato da par suo l’estremo, invalicabile confine. Pausa dl sospensione per meglio guatare sugli abissi del non più esprimibile? Modo, come ogni altro legittimo, di rinviare, o aggirare, una soluzione purchessia? Semplice stanchezza? Ogni risposta è possibile; fatto si è che l'Ottava, detta anche "Sinfonia dei mille" per lo smisurato organico eletto in campo, è l’unica delle opere mahleriane concepite in termini di omaggio a un mito e a una cultura "ufficiali", quegli stessi che sembrano assumere, in tutto il restante suo opus, un carattere di profondo svilimento interiore; l’unica, cioè, chiamata a celebrare tutto ciò che la sua musica aveva sin qui indirettamente ma inequivocamente condannato (non per nulla Adorno ebbe a dire che Mahler conosce nell'Ottava il suo momento di "identificazione passiva con l’aggressore").
Ora, se annettiamo a questa Sinfonia il compito di "puntellare con frammenti le rovine di una tradizione", finiamo con il dover condividere il punto di vista di chi ha giudicato inevitabile il ricorso all’eclettismo nella sua struttura e nel suo stesso linguaggio. "Inserzione eterogenea rispetto ai due gruppi confinanti" (Principe), l'Ottava è, infatti, una sinfonia sui generis che accoglie nel proprio capace telaio elementi della festa barocca come del teatro d’opera, suscitando, per di più, la curiosa impressione che Mahler sia, da un lato retrocesso agli albori del genere, a Luca Marenzio e ai Gabrieli, quando non era ancora chiaro se la Sinfonia dovesse avere o meno un apparato timbrico differenziato, e dall’altro, si sia spinto sino al termine del rituale, scoppiato nel frattempo per sua stessa mano.
Ora, se annettiamo a questa Sinfonia il compito di "puntellare con frammenti le rovine di una tradizione", finiamo con il dover condividere il punto di vista di chi ha giudicato inevitabile il ricorso all’eclettismo nella sua struttura e nel suo stesso linguaggio. "Inserzione eterogenea rispetto ai due gruppi confinanti" (Principe), l'Ottava è, infatti, una sinfonia sui generis che accoglie nel proprio capace telaio elementi della festa barocca come del teatro d’opera, suscitando, per di più, la curiosa impressione che Mahler sia, da un lato retrocesso agli albori del genere, a Luca Marenzio e ai Gabrieli, quando non era ancora chiaro se la Sinfonia dovesse avere o meno un apparato timbrico differenziato, e dall’altro, si sia spinto sino al termine del rituale, scoppiato nel frattempo per sua stessa mano.
Abbozzata nel breve volgere di due mesi, questa Sinfonia era stata ideata in origine secondo un piano che prevedeva quattro parti anziché le attuali due: l’inno Veni, creator, uno Scherzo, l’Adagio Caritas (sorta di costante dei progetti mahleriani mai davvero realizzata), l’inno La nascita di Eros. V'era dunque, già in partenza, una volontaria commistione tra l’elemento cristiano e quello dionisiaco o, in senso lato, decadente; ma anche la successiva scelta di accorpare il frammento del Faust in unica scena risponde con sufficiente chiarezza al programma compromissorio e alla conseguente necessità del procedimento eclettico. Se pur sono state fornite ragioni all’accostamento fra l’inno di Rabano Mauro e il poema di Goethe (una, specialmente verosimile, può rintracciarsi in Egon Gartenberg, che giustifica l'eterogeneità dei due testi con l’intento mahleriano di armonizzare l’elemento cattolico con quello protestante), non è dubbio sul fatto che l'eterogeneità strutturale e linguistica dell'Ottava nasca da una consapevole scelta di stile; abbia, insomma, funzione di propellente e trovi la propria causa unicamente in sé: la volontà di espletare un atto di fede e, insieme, di perpetuare per l’ultimissima volta, e con qualunque mezzo possibile, un’avventura magica, quella della sinfonia. Tradizione e angoscia del suo exit, infine.
Verificandosi in questa aporia il senso ultimo dell’Ottava, è logico che trovino in essa coesistenza e uguale plausibilità, perfino all’interno di una stessa sezione, appelli religiosi e "musica mundana": la nobile idealità del mistero della Pentecoste come la sensuale bellezza dell’Eros; gli incantati, e assai più viscidi, paradisi botanici novalisiani come l’apoteosi dello spirito. Ma l’isolamento e l’anacronismo, in cui questa musica si dichiara maggiormente veritiera, tradiscono ancora e sempre l’imperativo morale dell’artista del malessere: raccogliere per un futuro che li riconoscerà inservibili tutti i materiali condannati, chissà forse al fine di preservarli dalla distruzione. Dovere tipico, del resto, dell’intellettuale del secolo che sta ora giungendo a termine.
La Prima Parte della Sinfonia, cui la musicologia assegna pressoché unanimemente saldezza e omogeneità d’impianto superiori a quelle della Seconda, è elaborata su una sorta di variante della forma-sonata, irregolarmente prospettata, con una doppia fuga che costituisce l’apice dello sviluppo, il quale viene a sua volta risolto in una maestosa ricapitolazione. Alcuni studiosi vi hanno intravisto una derivazione dal Te Deum e dalle Messe di Bruckner; la massiccia potenza dell’attacco con organo (Allegro impetuoso) afferma il mi bemolle maggiore, tonalità cardine dell’opera, mentre la ripetizione per otto volte del "Veni" è il modello melodico del primo grande soggetto tematico, più volte impiegato nel corso della Sinfonia. A precisare la complessità del sistema di rapporti che il musicista instaura, quanto meno sul piano del disegno costruttivo, fra le dissimili parti dei due testi, il latino e il tedesco, significativa è l’analogia fra la quarta discendente mi bemolle-si della parola "Veni" e il "Komm! Komm!" ad avvio del trionfante passaggio della Mater gloriosa nella Seconda Parte (batt. 1249/51), con l’inversione dell’intervallo suddetto, che si manifesta anche qualche misura dopo e, in differente grado, nell'accompagnamento dell’a solo "Blicket auf", affidato al coro.
Un bell’episodio lirico si ode in re bemolle maggiore, sulle parole "Imple superna gratia" (att. 7, p. 9), agli oboi e al corno inglese, e ritorna nella Seconda Parte alle parole di Margherita (Una poenitentiun) "Er ahnet Kaum"; mentre, una battuta prima dell’att. 38 (p. 34), un grande unisono dei solisti e dei cori infiamma le parole "accende lumen sensibus", ulteriore idea polifonica che, a conferma delle interrelazioni già dette, dominerà in guisa di leitmotiv ampie sezioni della parte "faustiana", ivi compreso il preludio orchestrale della Montagna degli Anacoreti. Ha ricordato Ugo Duse che nell'episodio nella lontana tonalità di mi minore che ha avvio alle parole "Hostem repellas" (att. 42, p. 38) gli intervalli sulla parola "hostem" (nemico) sono tutti intervalli proibiti dalla teorica medievale, e cioè settime, none e tritoni (Es. XII). Una vasta ripresa del primo tema sopraggiunge ad att. 46, proponendo il ritorno al mi bemolle maggiore con una grandiosa doppia fuga, "Praevio ductore"; quindi, dopo il rapido affacciarsi di un nuovo soggetto enunciato da soprani e contralto e dai legni in orchestra, una serie ininterrotta di modulazioni riconduce, attraverso la maggiore, do diesis minore e mi maggiore, alla combinazione dei vari gruppi tematici sin qui uditi; e inizia la sezione conclusiva, l’esultante "Gloria sit Domino" (att. 84, batt. 509 e ss., p. 68), intonato dai due cori, di cui è stata notata l’insolita struttura melodica, conchiusa tra re bemolle, fa all’ottava inferiore e poi all’ottava superiore e ritorno a re bemolle: il salto d’ottava sul fa sottolinea la mediante di re bemolle e celebra, con essa, "il trionfo del modo maggiore".
E' indubbio che in questa intera Prima Parte la materia tematica s’incardini entro una dimensione di pienezza che è a sua volta in relazione con il testo e con la sua peculiare matrice prosodica; ed è virtù precipua di Mahler l’aver innescato con effetti di invidiabile compattezza la sempre dirompente personalità d’autore che gli fu propria (e di cui due passi paiono specialmente indicativi, il citato "Imple superna gratia" e l’"Infirma nostri corporis") con l’oggettività dell’inno in latino medievale. Per strenua che sia l’immedesimazione con il modello, insomma, s'avverte in ogni momento come il linguaggio risulti inevitabilmente (e felicemente) compromesso con coordinate tardo-ottocentesche: sonorità, coloriti, procedimenti tematici appartengono al tempo presente quantunque incardinati con grande efficacia nello schema del tempo passato. La sensazione, comunque, rimane che quella pienezza simboleggi un eccesso in termini di poetica mahleriana: la prima, e forse l’ultima, manifestazione di "potere" sinfonico da parte di un autore che la Storia aveva eletto, puramente e semplicemente, a compiere opera di distruzione di quel potere.
E' pertinente l’osservazione di Quirino Principe secondo cui il motivo di flauti e clarinetti in pp sul tremolo degli archi che introduce la Seconda Parte, avendo forti ascendenze in Das klagende Lied, rappresenta "l’ingresso in un mondo nordico, slavo, fiabesco" e, che è probabilmente lo stesso, l’irruzione del mondo di natura, ancora una volta, nella tela del sinfonismo di Mahler. L'autore della più ambigua delle musiche del tardo romanticismo torna, con un gesto di orgogliosa fierezza, nell’alveo suo proprio con questo affascinante, misterioso Preludio (Poco adagio) di 170 battute nella tonalità di mi bemolle minore in cui il motivo di "accende lumen" dell’inno (affidato ai contrabbassi pizzicati) sorregge una melodia dei legni contenente, a sua volta, il germe del conclusivo coro mistico "Alles Vergang|iche...". L'articolazione a tasselli di questa Seconda Parte contrasta in modo vistoso con l’unitarietà della Prima, ma ne trae altrettanto vistosa dipendenza, come si è visto, per via delle strette relazioni tematiche e strutturali, sin palesi nel dettaglio delle cellule e dei loro procedimenti; è come, insomma, se "L'eterno femminino" che "ci attira in alto" (Das Ewig- Weibliche-Ziet uns hinan) e lo Spirito creatore che discende dall’alto s'incontrassero in una mistica unione spargendo intorno però forti aromi di Jugend-Stil.
In una trama compositiva di evidente discontinuità non pochi sono, per ciò, i momenti di grazia: alla fine del preludio strumentale, ad esempio, il coro "Waldung, sie schwankt heran" (La foresta ondeggia verso di noi) è notevole per i suoi effetti d’eco; e se i successivi interventi del Pater ecstaticus ("Ewiger Wonnebrand") e del Pater profundus ("Wie Felsenabgrund...") rasentano modalità operistiche (non disdegnando di anticipare, quest’ultimo, nella melodia e nel ritmo il primo numero del Lied von der Erde), spiccano fra gli episodi corali a seguire lo squisito "Jene Rosen" degli Angeli Novizi (in cui Richard Specht vide la realizzazione dell’originario Scherzo) e soprattutto "Uns bleibt ein Erdenrest", coro degli Angeli più Perfetti, che, trasposto dal do diesis min. al re minore, riproduce L'Infirma nostri corporis dell’inno. Alla fine del canto del Doctor Marianus, inneggiante insieme al coro alla Vergine, si apre un ulteriore squarcio puramente strumentale di intensa struggenza (att. 106, p. 139), con la didascalia Mater gloriosa schwebt einher (La Mater gloriosa si libra in volo): una lunga melodia in mi maggiore, Äusserst langsam, Adagissimo, affidata per più di venti battute ai violini primi su un accompagnamento di arpe e armonium svela il mirabile "tema d’amore" della Mater dolorosa, dalle fattezze che si son dette da taluno lisztiane e da talaltro schumanniane, ma che serba impronta cosi squisitamente mahleriana da non poter dare luogo ad equivoci di sorta (Es. XIII).
Variamente utilizzate, le cellule motiviche di questa pagina e dei suoi derivati costituiscono il sostrato dei tre interventi delle donne Sui testi di Luca (VII, 36, Magna Peccatrix), Giovanni (IV, Mulier samaritana) e degli Acta Sanctorum (Maria Aegyptiaca); esse riprendono poi insieme ("Die du grossen Sunderinnen") il disegno di "Jene Rosen" e lasciano il campo ai due canti di Margherita, a mezzo dei quali si ode un coro di Fanciulli Beati. Di peculiare evidenza è il primo di questi canti, "Neige, neige", versione più animata del "tema d’amore" cui conferisce sapere timbrico inusitato il sostegno del mandolino. Ed è a partire da qui che procede il bel finale: "Komm! Komm!", unico intervento vocale della Mater gloriosa, propone (att. 172, "dolcissimo", p. 184) l’inversione dell’intervallo discendente posto ad apertura del "Veni" introduttivo e si proietta sul secondo intervento del Doctor Marianus, l’estatico "Blicket auf zum Retterblick" ("Levate, dolcemente pentiti..."), con susseguente ripresa corale e "crescendo" agli ottoni sul motivo dell’"accende lumen". La conclusione corale, sul celeberrimo "Alles Vergäingliche", nel festoso mi bemolle maggiore d’avvio, è il degno sigillo ad un’impresa musicale ambiziosa quanto rischiosamente aperta sul vuoto dell’estraneità.
Eseguita per la prima volta il 12 settembre 1910 nel palazzo delle Esposizioni di Monaco, con Mahler, appositamente tornalo dall’America, alla testa di un gigantesco corpus di solisti, strumentisti e coristi (per un totale di più di mille elementi), l`Ottava riporto un caloroso esito di pubblico e di stampa, cui non dovettero esser estranei la "magnificenza" del progetto e l'accorto barrage promosso dall’impresario Emil Gutmann. Si trattò, invero, del più grande successo ottenuto da una Sinfonia di Mahler, vivente l’autore, persin malinconico se si riflette sul suo valore di commiato: l’Ottava fu, infatti, l’ultima sua opera che l’autore riuscì a dirigere in pubblico. A quella serata di fine estate, carica di echi, presenziò un folto uditorio reso prezioso da una teoria semplicemente impressionante di dignitari della cultura europea contemporanea; si contarono, infatti, fra gli astanti, a non dir altro, Richard Strauss, Thomas Mann, Anton Webern, Arnold Schönberg, Max Reinhardt, Alfredo Casella, Leopold Stokowski, Bruno Walter, Georges Clemenceau, Stefan Zweig, Siegfried Wagner, Hermann Bahr e Willem Mengellucrg. E di essa ü rimasta una significativa testimonianza a firma di Casella. L'esecuzione, peraltro, era stata preparata, su precisa richiesta epistolare dell’autore, da Bruno Walter, cui Mahler aveva demandato nel marzo precedente di occuparsi di quell’impresa comparabile "agli spettacoli Barnum e Bailey"; e il tributo di folla parve unanime, o quasi, potendosi supporre che proprio Walter ne avesse colto con sottigliezza le ragioni, allorché affermò che "nessuna opera di Mahler esprime così ardentemente il “si” all’esistenza". Unica voce di malanimo ebbe a levarsi, in tanto consesso di euforie, dalla penna del critico Eduard Wahl, il cui pezzo cominciò con un curioso calembour onomatopeico; "Klingling, bumbum und tschingdada, zieht im Thriumph der Perserschah?" (Sta forse arrivando lo scià di Persia in trionfo? - Nient’affatto: era soltanto l’Ottava di Mahler). Si ha ragione di supporre che l'autore, ben altrimenti pago dell'evento, non se ne inquietasse più di tanto.
Gesualdo Nicastro ("Le sinfonie di Mahler", Mursia, 1998)
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