Arianna Savall è da tanti anni un’infaticabile esploratrice dei sentieri meno battuti della musica classica e "a margine" - per usare un’espressione che in questa rivista ha successo -, sulle orme dei suoi celebri genitori Jordi Savall e Montserrat Figueras. Ma solo ora è arrivata alla decisione di pubblicare un disco completamente da sola: il titolo è "Le Labyrinthe d’Ariane", e vi ascoltiamo un repertorio che spazia dal Medioevo al Barocco, dall’Italia alla Francia alla Spagna, e con sette differenti arpe storiche.
Riportiamo la piacevole conversazione tenuta con l’artista catalana.
Perché questo titolo?
Avevo diverse idee per questo disco, ma con il team di Alia Vox abbiamo pensato che questo percorso con sette arpe fosse ben rappresentato dall’immagine del labirinto, che è però un labirinto felice, dove i1 Minotauro è un amico, un segno di speranza. L’arpa ha un suono insieme dolce ed arcaico, quasi magico, che calma e seduce. E poi il labirinto è anche simbolo di un cammino interiore, di coscienza e conoscenza.
Come ha scelto il repertorio da incidere?
Alcuni brani mi accompagnano dall'infanzia, come la Follia di Gaspar Sanz, arricchita da mie improvvisazioni, così come quelle di Marin Marais, di Lucas Ruiz de Ribayaz, di Santiago de Murcia: è musica che studiava mio padre quando io ero piccola, e con cui sono cresciuta. Invece a mia madre mi riporta "Folle è ben che si crede" perché a Merula mia madre aveva dedicato un disco: amava molto la musica italiana, specialmente Caccini e Monteverdi. La conoscenza di Kapsberger invece mi viene da Rolf Lislevand, mio maestro: l’arpa barocca ha molto repertorio in comune con la tiorba, il liuto e il cembalo, ed è bello quindi studiare con un liutista. Infine, amo anche il repertorio medievale dei trovatori, perché anch'io mi sento un trovatore del nostro tempo: è musica per la cui esecuzione abbiamo meno informazioni, e quindi c’è più libertà.
E poi le sette arpe: me ne parla?
Partiamo dalla piccola arpa romanica, compatta come le chiese di quel periodo, dal suono fosco e facile da trasportare; poi l’arpa gotica, più grande e più cristallina. Passiamo a due strumenti medievali della penisola iberica: la rota, un’arpa-salterio davvero affascinante che presenta due file di corde dai due lati della tavola armonica, e si impugna come un’arpa (non come un salterio). Questo strumento ha una "vita" di circa cent’anni, e poi intorno al 1300 è soppiantata dall’arpa doppia dell'Aragona e Valencia: entrambi sono alla base dell‘arpa doppia italiana, comparsa a Napoli. Queste erano le quattro arpe medievali; poi passiamo al Rinascimento con la citata arpa doppia italiana, che ha vita breve perché e uno strumento difficile da suonare, tanto che già Monteverdi nell'Orfeo, 1607, scrive "arpa doppia" ma intende un‘arpa tripla, ossia a tre registri. Spesso si fa confusione fra i due strumenti! L’arpa tripla italiana ha due file diatoniche all’esterno, ed all’interno le corde cromatiche: le sue possibilità sono enormi, è uno strumento indispensabile per il basso continuo, tanto che viaggia per tutta Europa, dalla Francia all’Inghilterra, dove Purcell se ne innamora. Ma in Spagna (e poi nel Sudamerica) invece si preferì usare un tipo di arpa doppia cruzada, ossia incrociata, con una fila di corde cromatiche e una diatonica: un suono più terreno, diretto, mentre l’arpa tripla è celestiale. Ed è la mia favorita, insieme a quella medievale.
E' il suo primo disco da sola: perché solo ora?
Ho compiuto un passo che mi è costato coraggio: ho creato 11 anni fa il gruppo Hirundo Maris con mio
marito Peter Udland Johansen, che è norvegese, unendo Nord e Sud. E io amo esibirmi in duo, o con altri musicisti, amo il dialogo: suonare da solo è un‘esperienza diversa. Ma mio padre voleva un disco così, in cui le arpe antiche fossero protagoniste, e anche Peter mi ha spronato in tal senso: quindi nel 2018 ho registrato in un piccolo castello in Belgio, casa di alcuni amici, che ha un’acustica molto bella, diretta e non troppo risonante. In questo disco io canto poco perché volevo che le arpe cantassero da protagoniste.
Una domanda forse abusata: com’è stato diventare musicista con l’esempio così luminoso dei suoi genitori?
Credo che da fuori appaia più difficile di quanto sia stato per me e mio fratello, anch‘egli musicista professionista: abbiamo sempre visto i nostri genitori fare le prove a casa, il loro amore per la musica e per questa vita da nomadi, che ha momenti difficili - spesso erano fuori casa, e ci lasciavano con una babysitter. Ma mia madre si curava che avessimo sempre ottimi insegnanti di musica: io ho iniziato a studiare il piano, poi l'arpa celtica, l’arpa classica, i1 canto... A casa però non facevano tanta musica, con l’eccezione del periodo di Natale: nella famiglia di mia madre c’è una ricca tradizione di canto corale, una letteratura davvero affascinante. Io ho studiato storia dell’arte e archeologia all’università, ma a vent’anni ho capito che l'attrazione per la musica era più forte: ho scelto io questa vita, o almeno lo credo! Non è una vita facile, certo: ma quale lo è?
Oltre a Lislevand e i suoi genitori, quali figure sono stati importanti per la sua crescita artistica?
Voglio ricordare la mia insegnante di pianoforte, Susanne Hockenios, che mi ha insegnato a comporre ed a improvvisare; e poi Magdalena Barrera e Andrew Lawrence-King, con cui ho studiato l’arpa e Maria Dolors Aldea, insegnante di canto e grande amica di mia madre. Mi confronto con tutti loro ancora oggi.
I prossimi progetti discografici?
La lista di progetti è lunghissima, e non credo che porterò a termine tutto: posso dire che a settembre uscirà per Fuga Libera un disco che contiene pagine dell’Ottocento e del Novecento per voce e pianoforte, che unisce musica e poesia, fra Schubert, Schumann, Grieg e Fauré, trascritta per due chitarre, arpa barocca, mandolino, violino e contrabbasso. E poi continuerò questo "labirinto" con le arpe, allargando l'indagine ad altri ambiti geografici.
Claudio Bolzan, Nicola Cattò
("Musica", n.327, giugno 2021)
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