Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, settembre 07, 2006

Max Reger e Arnold Böcklin: il volo dei colori

Nel 1913 Max Reger (Brand, Baviera, 1873 - Lipsia, 1916) compose i Quattro poemi sinfonici da Arnold Böcklin. Da tempo era affascinato dalla forza di quei colori. Come Liszt, era persuaso che l'immagine, la parola, il gesto di un segno sigillato in una forma potessero aiutare l'ispirazione dell'artista. Molto distante da qualcosa di semplicemente descrittiva, lontano da una banale riproduzione, la fonte sonora poteva sgorgare liberamente dalle intime emozioni che una poesia o un dipinto sapevano donare. Già Eichendorff e Hölderlin, con le loro ricche parole, lo avevano ispirato per alcuni sontuosi canti, sinfonici spazi di luce in cui il senso dei versi si dilata in una costellazione di timbri e di voce. Poco dopo, su quattro capolavori di Arnold Böcklin concentrò la sua attenzione: L'eremita che suona il violino, Nel gioco delle onde, L'isola dei morti, Baccanale, divennero l'orogine di una copiosa metamorfosi sonora.
In questi quattro dipinti Reger vedeva la sintesi del mondo, vedeva rappresentato in immagini e simboli il mistero dell'esistenza: ciascuno di essi rappresentava un universo: ora si esaltava l'interno ora l'esterno, ora la meditazione era l'estroversione, ora il marmoreo dolore ora la profumata felicità; qui la concentrata preghiera del monaco che ringrazia il Signore suonando il violino - là la gioia dei sensi sullo specchio danzante del mare; qui la fredda contemplazione della morte, là il ritmo irnpetuoso della festa. Certo, le forme modellate da quei colori già in sé contenevano degli impliciti suoni: le immagini dei musicisti, la presenza del violino, il ritmo dei tamburi, il gorgoglio dell'acqua, lo scalpicciare della danza, o la solidificata malinconia del silenzio. Tuttavia, proprio a partire dalla splendida autonomia di quelle forme, Reger si ispirò per la sua libera interpretazione. Compositore radicato nel cuore dell'Ottocento - nella venerazione di Brahms e di Bruckner - egli amava Böcklin per la solidità dei toni, la maestria della tecnica, il rigore della composizione e l'enorme nspetto per la tradizione. Se i suoi contrappunti visionari, le grandiose variazioni, i suoi fittissimi intarsi sonori partivano da Bach - trascendendolo in una ricca virulenza espressionista - anche Böcklin aveva sempre dimostrato il suo grande amore per i maestri del passato; e Tiziano, Savoldo, Guido Reni, Rubens furono i suoi fedeli modelli, per una profonda ispirazione che affondava le proprie radici fino alle antiche pitture di Pompei.
Max Reger aveva compiuto solidi studi con Hugo Riemann, aveva conosciuto Busoni poi si era trasferito a Lipsia, dove visse per tutta la sua breve vita come direttore musicale dell'Università e insegnante di composizione al Conservatorio. Diresse l'orchestra di corte di Meiningen, appassionandosi alla diffusione delle musiche di Brahms, Bruckner, Wolf e Richard Strauss. Suonò l'organo per un numero sterminato di ore, e per l'organo compose uno sterminato numero di opere. Per molti anni la sua figura è stata incagliata tra le dorate sabbie del contrappunto bachiano. Ora il suo veliero naviga serenamente tra le profonde acque del tardo romanticismo. Come Richard Strauss, Reger non è stato toccato dal modernismo europeo; mancato a questo mondo troppo giovane, non poté che percepirne i primi albori. Spirito profondamente riflessivo - lottò ininterrottamente con una feroce nevrosi - venerava le antiche forme dei padri, gli esempi dei grandi maestri: l'immensa colata del suono, per lui, non poteva che strutturarsi nei robusti stampi della fuga e della variazione, acquistando una corretta e poderosa forma. Come Brahms, era convinto che alcuni fondamentali modelli storici non potessero essere dimenticati; il presente si generava dal passato, il futuro era il sogno del presente. Per questo l'immensa ruota della sua ispirazione continuò a macinare il prezioso grano della tradizione. Le linee melodiche continuarono a sovrapporsi in un fittissimo intarsio contrappuntistico; classici temi di Bach, Mozart e Beethoven trovarono nuove e incessanti variazioni; e un inquieto cromatismo colorò quelle tortili forme in un ribollire di timbri.
Come Reger, Amold Böcklin (Basilea, 1827 - San Domenico di Fiesole, 1901) aveva il culto della tradizione. Più i rami crescevano e si sviluppavano, più le radici dovevano scavare nelle profondità della storia. Oltre la scuola veneziana, al di là del mirabile esempio rinascimentale, il suo grande amore era per gli antichi affreschi di Pompei. Là l'arte pittorica aveva raggiunto il supremo equilibrio tra forma e contenuto, analisi e sintesi, espressione e colore. Là si trovavano le grandi tecniche che andavano ripristinate. Se la pittura a olio, come il pianoforte, aveva limitato le possibilità timbriche del suono-colore, gli antichi impasti, i segreti pigmenti degli affreschi di Pompei indicavano la giusta via. L'arcaica formula dell'encausto, i colori diluiti in cera fusa e spalmati a caldo sull'intonaco, assicurava un risultato migliore. Ma non tutto ciò che brillava poteva,essere prezioso. Böcklin detestava la Francia e non amava la nuova pittura francese; per lui gli impressionisti erano troppo esteriori, troppo facili, talvolta frivoli. Come si giustificava quell'aereo e svolazzante brulichio di luci? Su cosa si basava quella macchia di colore? Come si poteva comprendere quella spatolata di verde, quella pennellata di rosso, quel guizzo di nero? Certo, come diceva Baudelaire, un quadro finito può non essere fatto del tutto e un altro apparentemente incompiuto può essere perfettamente realizzato; anche per Böcklin ciò che era appena abbozzato, quello che era discretamente accennato può affascinare molto di più di un lavoro meticolosamente rifinito. Così, se gli impressionisti mutarono la pittura dal suo estemo, Böcklin la volle riedificare dal suo interno.
Nell'autunno 1860, a trentatré anni, venne nominato professore di pittura di paesaggio all'Accademia di Belle Arti di Weimar. Dopo un periodo di gravi difficoltà economiche, sembrava che la sua vita avesse acquistato una giusta stabilità. Per lui e la sua numerosa famiglia poteva essere una bella sistemazione. Ma, dopo due soli anni, il richiamo verso l'Italia si fece sempre più forte. La nostalgia per il Sud, per Roma e la Toscana, era troppo intensa; il desiderio di rivedere e poter vivere nel paese più bello del mondo lo sradicò dalla Germania. Ne aveva abbastanza della città del gran duca, della sua attività di professore, di quel paese meschino «di patate e barbabietole». Aveva bisogno del «Sud non civilizzato». Come Schopenhauer, Böcklin era persuaso che l'uomo è dominato dalla volontà asservita all'istinto, e non alla ragione. Che cos'è in fondo la storia, la civiltà, il progresso, di fronte all'immensa forza della natura? Che cos'è l'intelligenza, la tecnica, la cultura, al confronto del grandioso enigma del mondo? Non ci si rende conto che siamo infinitamente piccoli nell'infinità dell'universo? Non siamo coscienti della nostra assoluta fragilità? Nonostante le mille trovate della tecnologia e della scienza, Böcklin sapeva che siamo un microscopico puntino nello spazio, in attesa di un'identità trascendentale. Per quanto ne sappiamo, la terra potrebbe essere un gigantesco animale e noi, poveri uomini, i suoi piccoli parassiti. Come il Macbeth di Shakespeare, talvolta pensava che «La vita non è che un'ombra che cammina; un povero attore / che si pavoneggia e si agita per la sua ora sulla scena / e del quale poi non si ode più nulla: è una storia / raccontata da un idiota, piena di rumore efurore, / che non significa nulla». Ma amava intensamente il volo, e a partire dal 1860 fu uno dei primi a progettare e collaudare preziosi e pionieristici velivoli. Studiando al liceo ginnasio si era innamorato delle storie della mitologia. Quei racconti, quelle fiabe, quelle paradossali e ambigue narrazioni, in realtà, erano il cuore dell'esistenza. Come aveva benissimo scritto Sallustio,«Queste cose non avvennero mai, ma sono sempre». Così,soprattutto a contatto con il Sud selvaggio, i suoi dipinti si riempirono di fauni, di ninfe, di sirene, di satiri, di titani, di centauri, di eroi, di presenze ovvie e misteriose, possenti ed effimere. In esse, come nella vita, tutto era lotta, desiderio,conflitto, passione. Ogni cosa era volontà e contraddizione,tutto era univoco e doppio, molteplice e complicato: come nel grande simbolo di Pari, il dio che più amava: ildio dell'unità e della dissociazione, della grazia e della ferocia, dell'armonia e della paura. Cosa rimaneva oltre quelle storie? Cosa perdurava al di là di quegli enigmi? Che cosa ci descrivono così impietosamente? Solitudine e malinconia, malinconia e dolore; il pianto e l'urlo soffocatidei suoi intensissimi ritratti che tanto influenzarono Edvard Munch.
Quando, nel 1913, Max Reger compose i Quattro poemi sinfonici da Arnold Böcklin, Böcklin era morto da dodici anni. Non ci sono testimonianze di un loro personale incontro. E il pittore dell'Isola dei morti non amava la musica a lui contemporanea. Non amava né Brahms, né Liszt, né Wagner, uomini che in più di un'occasione gli testimoniarono la loro ammirazione. La grande musica per lui era quella di Bach, di Mozart, di Allegri, del quale suonava e risuonava Miserere con il suo piccolo armonium. Pur non credendo nella fusione delle arti, dipinse molte scene canore; la pittura era silenzio, infinito silenzio, come i gesti armoniosi e strani delle sirene, come le numerose bocche fissate nella cristallina felicità del canto, come lo sguardo che indugia nel folto dei boschi, e la sorda eco della barca fantasma che raggiunge gli alti e neri cipressi. C'era però il colore, il timbro che squilla, il tono che canta, il riverbero di molte note solidificate che diventano acqua, roccia, carne, nuvola, cielo, ombra , oltre le limitazioni di qualsiasi titolo. Partendo da quei dipinti, e realizzando il suo capolavoro, forse Max Reger ha voluto moltiplicare il mistero di quelle luci. Forse ha voluto testimoniare soltanto una grande ammirazione, per un colore che è suono immobile e solidificato. Rimane un'unica certezza: alleggerendo la sua tavolozza timbrica, allentando gli schemi classici, ritrovando la gioiosa fonte dell'invenzione in un'inedita freschezza, compose una delle più belle musiche del primo Novecento.
di Paolo Repetto ("Amadeus", nr.201, agosto 2006)

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